GRAMMATICA E SESSISMO

CENTRO DI RICERCA DIPARTIMENTALE MULTIDISCIPLINARE

Le parole, ritratti del mondo a portata di mente. Premessa di fine e di metodo al volume e alla collana sull’opportunità di una linguistica politica


Sono un linguista e per questo reputo che nulla “di linguistico” mi sia estraneo. Questo di sé e degli orizzonti del proprio studio affermava Roman
Jakobson (1896-1982), studioso di lingue e di linguaggi percorso come pochi da un desiderio famelico di conoscenza del linguaggio in lungo e in largo. Decine di migliaia le pagine lasciate in eredità agli studi futuri, nelle quali colpisce l’anelito di descrizione in particolare delle manifestazioni tipiche delle aree di confine, quelle zone scivolose difficilmente attribuibili all’uno o all’altro dominio di conoscenza implicato col linguaggio e con le sue concretizzazioni. Zone che fanno tremare il bisturi di chi, per definire la propria attività di studio, si rifà a presunti confini definitori prestabiliti, rispetto ai quali tutto quanto pienamente rientrante nei limiti del taglio è imputato al dominio d’altri.
In “Sono un linguista e per questo reputo che nulla mi sia distante” – nulla e basta, non solo di “linguistico” –, sommava l’attitudine e l’estensione dell’azione descrittiva di Jakobson Umberto Eco, impegnato a ripercorrerne – ed omaggiarne – la curiositas, percolata in quel numero incalcolabile di pagine per le quali occorre provare immensa gratitudine; una gratitudine che va al di là del progresso che Jakobson ha consentito di operare agli studi linguistici del Novecento, giacché la sua riflessione ha contribuito a realizzare una migliore comprensione delle specificità di Homo sapiens sapiens, il segmento evolutivo attuale della specie cui apparteniamo, la cui essenza è racchiusa proprio nel nucleo di ciò che costituisce il Linguaggio (verbale), “il sistema semiotico più importante, fondamentale e primario […] realmente il fondamento della cultura […] lo strumento essenziale della comunicazione in quanto informazione” (McQuown, citato da Jakobson nel prosieguo dello stesso saggio).
Di quel Linguaggio, ciascun individuo si appropria in modo differente e strettamente dipendente alla partecipazione a contesti sociali vari, fin dal giorno della nascita: sarà infatti l’immersione tra i parlanti a far sì che la predisposizione innata al Linguaggio si traduca in pezzi di una lingua via via più consistenti, la cui fattura risulterà dipendente dalla qualità degli usi con i quali si viene in contatto e poi, insieme, dalle possibilità offerte dall’apprendimento, culminante nei vari gradi della scolarizzazione.
Parole, quelle di chi già le usa, fanno perciò da modello per la progressiva emersione di parole in chi ancora non le maneggia ma presto lo farà: in una manciata di mesi, infatti, ciascun nuovo esemplare della specie costruirà la grammatica mentale della o delle lingue con le quali si mantiene progressivamente e prolungatamente in contatto, ma così facendo pagherà un prezzo spesso sottovalutato, consistente nell’impossibilità di “vedere” la realtà in modo autonomo rispetto alla lingua per mezzo della quale se la rappresenta e la ripensa, per poi eventualmente comunicarla.
Agli antipodi rispetto a quanto sostenuto dalla logica simbolica, che vuole i “significati linguistici” disgiunti dalla presenza delle “cose” e ridotti al sistema di relazioni che la singola espressione intrattiene con le altre espressioni (JAKOBSON 1966:21), l’esperienza della costruzione di ogni tessera di quell’entità alla quale, presa nel suo complesso, ci si riferisce per prassi come al dizionario mentale dell’individuo non si separa invece, fin dagli esordi, proprio dalle forme dell’esperienza delle “cose” fatte da chi parla.
Il qui, l’ora e i soggetti con cui si interloquisce (includendo anche l’interlocuzione indiretta, per esempio quella mediatica, tipica della tv e degli altri media tradizionali, e, più di recente, quella mediale relativa ai vari social media la cui frequentazione si è abbassata e continua ad abbassarsi, per età, presso le ultime generazioni), “entrano” di fatto nell’esperienza della lingua che porta il soggetto parlante a ritagliare una espressione per facilitare il richiamo proprio di quella data esperienza e di tutte quelle che con essa condividono un numero abbastanza ampio di caratteristiche affini. Una condizione, questa, di non separabilità del simbolo linguistico da ciò che significa e rappresenta, che provoca la tendenza, e a maggior ragione nel caso di segni carichi di significato sociale, a far coincidere l’intero significato del segno con una forma specifica del reale: quella più “pervasiva” non perché necessariamente la più rappresentativa di un dato contesto sociale, ma perché la più ricorrente nella vita sociale dell’individuo. Una vita “fatta” di narrazioni almeno quanto di azioni non verbali.

Gli individui, per dirla con Jerome Bruner, apprendono la realtà e organizzano la loro conoscenza per mezzo di strutture narrative, che
costituiscono inoltre la principale modalità di comunicazione alla base
dell’interazione umana (BRUNER 1991): di qui il ruolo attivo delle narrazioni nel determinare la realtà rappresentata presso ciascun individuo e, insieme, il significato delle parole all’interno del suo dizionario mentale.
Risultando impossibili da scindere dall’agire comunicativo dei gruppi nel cui ambito l’individuo si trova a intrattenere relazioni comunicative – gruppi che si caratterizzano per una geometria variabile dovuta alla centralità instabile del nucleo di interessi intorno a cui il gruppo si addensa e muove –, appare chiaro il legame tra l’agire di qualunque natura e la costituzione di modelli mentali. Lampante si manifesta il rischio, per non dire la quasi scontatezza, che tra una certa realtà e la sua rappresentazione mentale si venga a stabilire un rapporto del tipo “la parte per il tutto” (o sineddochico), ovvero che il modello mentale (che si rifà a una parte, ovvero a uno dei vari modi di “realizzare” una certa “cosa”) finisca, in chi lo detiene, per assumere funzione di tutto.
Un tutto percepito come naturale e non come frutto di una costruzione mentale alimentata dal vivere sociale. Una volta costituitisi, i modelli mentali forniscono perciò il meccanismo attraverso il quale le nuove informazioni vengono filtrate e archiviate (si tende a vedere quello che già si conosce): di qui, anche sul piano linguistico, la possibilità che il particolare stato di cose a cui si riferiva la porzione di testo che ha alimentato il modello finisca per rappresentare l’insieme di tutti i modelli possibili.
È quanto avviene, per esempio, nel caso di “famiglia”, oggetto di riflessione di questo volume al centro anche di recenti dibattiti incentrati proprio sulla contrapposizione tra chi, usandola al singolare, ricerca anche nella longevità e nella sostanziale immutabilità formale del termine una prova della sua coincidenza con un unico modello sociale e perciò di necessità anche mentale, e chi, invece, facendo i conti con le innumerevoli declinazioni assunte nel tempo e nello spazio dalla realtà “in carne ed ossa” rappresentata dal termine, rigetta il singolare e, insieme ad esso, la sussistenza di continuità anche linguistica e istituzionale del costrutto, assumendo come “normalità” la pluralità di esiti a cui lo stare insieme può dare luogo e dei relativi stati mentali.
O per altri lemmi particolarmente significativi perché potenzialmente compresi in quello che Sabino Cassese, ha definito “alfabeto civile” rifacendosi al titolo di una giornata di studi in memoria di Tullio De
Mauro, il cui modo di intendere e ampliare l’ambito di riflessione proprio della linguistica

ci ha aiutato a capire l’Italia, la nostra storia, come
parlavamo e pensavamo e come parliamo e pensiamo, e, attraverso la parola, come siamo. La lingua è stato un punto di vista, un espediente per comprendere l’Italia e gli italiani (CASSESE 2018:52).

Capire le parole significa infatti capire chi le usa, assumendo la prospettiva di una centralità del linguaggio verbale che, a ben vedere, è da intendersi, adottando un approccio sistemico-funzionalista quale quello di Halliday (HALLIDAY 1985; HALLIDAY – MATTHIESSEN 1999), come centralità del significato, qui assimilato alla relazione che ogni simbolo intrattiene con il reale (se tangibile con mano o “solo” narrativo non importa, in entrambi i casi si tratta del “primitivo” da cui trae origine il significato) e, insieme, a quella che intrattiene con tutti gli altri significati. A fare le spese di tale centralità sarebbe così la forma espressiva, ridotta a solo involucro funzionale alla trasmissione, e quindi alla spendibilità in un nuovo ciclo comunicativo, del significato.
Un involucro che, quand’anche sfuggito al mutamento nel corso del tempo, può esprimere contenuti mentali e sociali diversi: o rispetto al passato, o rispetto alle diverse zone in cui il medesimo sistema linguistico è impiegato, o persino rispetto al singolo individuo. Contenuti che, per essere investigati con l’intento di comprendere che posto e che peso abbiano nella vita dei parlanti, necessitano di una azione di sconfinamento oltre la lingua che forse costituisce il senso stesso di una ricerca linguistica che voglia costituire anche una ricerca sul funzionamento della società – difficilmente comprensibile al netto dei linguaggi di cui si serve – che operi però in modo complementare alla sociolinguistica e alla sociologia del linguaggio. Di una linguistica politica, dunque, nel senso di ‘funzionale alla comprensione della polis’ e alla descrizione delle pratiche che in essa hanno luogo, a partire da quelle che consentono a ciascun individuo che ne sia parte la rappresentazione di sé e del mondo in cui vive.
Si potrebbe del resto obiettare che quanto affermato per “famiglia” possa valere per qualsiasi segno linguistico, e lo si affermerebbe a ragione: ma ci sono parole per cui le implicazioni tra lingua e mondo contano maggiormente, al punto di riuscire a “dare voce” a emergenze sociali, problemi del tempo in cui si vive ai quali provare a rispondere attraverso il meticciato dei saperi e quindi delle scienze, la cui positività è stata un pallino fisso dello stesso De Mauro, almeno da Minisemantica, del lontano 1982, in cui scriveva

a una visione adeguata del linguaggio, delle lingue, e dell’esprimere e comprendere individuali è possibile pervenire soltanto chiamando a raccolta e filtrando criticamente […] gli apporti derivabili da una pluralità di scienze diverse, dalla statistica alle neuroscienze, dalla biologia evolutiva alle scienze demologiche e antropologiche, al diritto e, ovviamente, agli studi storici, sociologici e psicologici. […] Le diverse occasioni di studio e le diverse esperienze […] sono andate convergendo verso l’idea che l’esplorazione del mondo del linguaggio debba svolgersi integrando saperi scientificamente accertabili (FORMIGARI 2018:2925).


L’accertabilità costituisce del resto una garanzia del valore di una affermazione e più in generale di un testo, ma risulta difficilmente praticabile o di limitata efficacia qualora non si possiedano competenze metalinguistiche (nel senso jakobsoniano di competenze relative al codice) in quantità adeguata a consentire un accesso non solo superficiale.
Nel caso della lingua, per esempio, la conoscenza e la competenza linguistica propria dell’utente medio/a, intesa, per esempio, come capacità di accedere al contenuto espresso dagli enunciati, non garantisce la possibilità di accedere alla porzione di conoscenza veicolata dal testo nel suo complesso, di cui l’enunciato è solo un elemento costitutivo.
Comprendere, altresì, il carico enunciativo del testo solo perché si sa
capire o leggere non è lo stesso che comprendere le ragioni per cui il testo
è stato strutturato, anche nel senso della tipologia testuale adottata e delle implicature, e formato esteriormente nel modo in cui ci si offre.
Questa competenza richiede infatti assai più che il possesso delle competenze di base relative alla lingua e ai suoi usi: richiede l’integrazione di conoscenze acquisite (l’esperienza partecipata a partire dalla quale facciamo nostra la lingua) e conoscenze frutto di apprendimento (formale, informale o non formale poco importa) e di costante pratica, in assenza delle quali il processo di decodifica/interpretazione non è stimolato o non lo è abbastanza.
Tra ciò che sfugge o che si va persino a perdere ricadono le ragioni stesse che possono aver animato il testo, che in minima parte hanno a che fare con la lingua ma che della lingua e del suo enorme potere simbolico si servono per raggiungere fini non sempre coincidenti con l’interesse sociale, termine-scorciatoia preferito a verità per una serie di ragioni che allontanerebbero troppo dal brevissimo giro di orizzonte di questa riflessione.
Quando si parla di capacità di usare la lingua del posto in cui si vive si sottovaluta spesso, infatti, quanto si stia parlando di accesso a quel sistema di diritti e doveri che, in democrazia, dovrebbe consentire a ciascun individuo di progredire lungo la scala del benessere sociale, specialmente in un’epoca in cui la conoscenza è ricchezza.

Una ricchezza che paradossalmente oggi – epoca in cui è disponibile, e per una massa di persone incommensurabilmente più numerosa, per effetto dell’architettura della conoscenza che sorregge gli applicativi dei dispositivi mobili, una quantità di conoscenza non paragonabile a nessuna fase precedente – è appannaggio di gruppi sociali ristrettissimi, la cui supremazia si regge proprio sulla capacità di gestione della conoscenza, sempre più da intendersi come dati relativi al singolo individuo e alle sue reti.
Una ricchezza che, per essere riequilibrata, necessiterebbe proprio di diffusione di conoscenza e di un allenamento metacognitivo permanente e proattivo, giacché in special modo in quest’era caratterizzata da un “intorno” in stato di permanente fibrillazione multilinguistica (nel senso dei linguaggi nel loro complesso e non della sola lingua), l’accesso e la partecipazione alla vita democratica passa ed è garantita più di quanto non si pensi dalla capacità di non subire ma coagire i processi comunicativi.
Perché l’illusione che le competenze relative alla lingua siano un fine da raggiungere, imparando prima a parlare e poi a scrivere, nella prima età infantile e che questa literacy sia bastante per affrontare il mondo dei testi con i quali ci si dovrà confrontare nel corso di tutta l’esistenza, costituirà la principale fonte di arricchimento di quell’analfabetismo funzionale allo studio del quale non a caso proprio De Mauro è giunto al culmine di una vita di studio in cui costantemente ha tenuto ancorato il discorso sulla lingua a quello sulla vita (e la necessità di una educazione) democratica.
Ripensare o ribadire, invece, per la lingua, il ruolo di facilitatrice non neutrale di conoscenza e lavorare, almeno nei contesti dell’educazione e della formazione, sui limiti di una competenza basata sulla sola literacy, costituirà la sola possibilità di vaccinarsi per gli effetti dell’oversemplification che chi ha conquistato ricchezza e consenso attraverso la conoscenza ha tutto l’interesse di spacciare come naturale.

L’eccesso di semplificazione che porta a spacciare una rappresentazione
della realtà che si regge su dicotomie sempre declinate in senso valoriale (+/-) conduce infatti, se non contrastata, a un assopimento della capacità di saper decostruire i testi di cui con le nostre stesse vite siamo costantemente parte. Della capacità di individuarne gli elementi costitutivi e le relazioni e auspicabilmente le ragioni e gli effetti.

La conoscenza, bene sommo perché ricchezza in sé e perché fonte di ricchezza anche materiale che dovrebbe, sulla carta, garantire una vita migliore per ciascun individuo, deve essere costantemente accudita se si hanno a cuore le sorti di una società. Ciascuno e ciascuna cercando di mettere in condivisione il proprio tassello di sapere su un dato argomento, gli autori e le autrici di questo e dei volumi a venire di questa collana si adopereranno per offrire a chi ne leggerà il contributo uno spunto polifonico a confrontarsi con un tema già noto ma, forse
proprio per questo, necessitante di un’altra riflessione, che muova da
una considerazione diversa sul ruolo che i linguaggi hanno sulle nostre
vite e sul nostro benessere.

(Il testo completo di note e bibliografia è accessibile nel volume La famiglia del terzo millennio. Tre millenni di famiglie, Blonk, Milano, 2019)

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