GRAMMATICA E SESSISMO

CENTRO DI RICERCA DIPARTIMENTALE MULTIDISCIPLINARE

Il linguaggio giuridico rispettoso del genere: un’analisi sulle norme della genitorialità

 di Stefania Cavagnoli

  1. Introduzione

L’uso di una lingua adeguata al genere e alla situazione pare rappresentare un problema per molte persone; infinite sono le discussioni che terminano con “suona male” o “è una questione di scelta io preferisco il maschile” (detto da uomini e donne indistintamente).

Alla base delle discussioni c’è anche una poca conoscenza della lingua italiana e della sua grammatica; sembra, a molte persone, che l’italiano possegga solo la forma maschile, da cui, ogni tanto deriva quella femminile. La rappresentazione della società attraverso la lingua mette in luce soprattutto una questione di potere, quasi che l’uso del maschile sia più prestigioso di quello femminile. Tale aspetto si riscontra soprattutto nelle denominazioni di professioni o cariche. La lingua rappresenta infatti una società in cui le donne, seppur molto numerose nel mondo del lavoro, rischiano spesso di non arrivare alle posizioni più alte. Così è stato almeno negli ultimi decenni, per cui la lingua possedeva primariamente forme al maschile. Oggi la situazione sociale è cambiata; per esempio, nell’avvocatura e nella magistratura più del 50% è rappresentato da donne, ed anche in campo politico si contano più donne. E’ ora che anche la lingua si modifichi, utilizzando le strutture proprie e disponibili; è forse ora che si torni ad utilizzare un grado di correttezza linguistica nelle frasi e nei testi, che era ed è richiesta nella scuola primaria, ma che poi si perde sulla stampa e nelle interazioni professionali. Il ministro Elena Boschi è andato”, ma anche “è andata” alla riunione. Innumerevoli gli esempi nei quotidiani italiani e nei comunicati stampa delle istituzioni.

In questo contributo mi sono chiesta che tipo di lingua sarà presente in due dei testi principali che regolano il tema della maternità e della paternità nel mondo del lavoro; nella cultura italiana, il tema della maternità è un tema femminile. L’ipotesi è quella quindi di trovare una lingua adeguata al genere, anche dato il contenuto delle norme in esame.

  1. Linguaggio giuridico

L’analisi di testi giuridici presuppone una riflessione sugli strumenti della linguistica e del diritto. Le principali teorie linguistiche di riferimento sono individuabili nella linguistica testuale[1], che considera il testo come elemento di base per l’analisi della dimensione comunicativa, la sociolinguistica, che considera la lingua dentro la società, elogiando la differenza e la varietà come elemento fondamentale della comunicazione, e la linguistica pragmatica, che analizza la lingua in uso, e considera la percezione dell’ascoltatore. In evidenza i testi orali, e le teorie di Austin e Searle sugli atti linguistici e la lingua come azione. Lessicografia e terminologia si occupano della dimensione delle parole, definendo la norma e dando stabilità alla lingua e dell’analisi storica delle parole, come un ulteriore mezzo per lo studio del linguaggio giuridico.

In questa analisi si utilizzano principalmente le teorie pragmatiche e sociolinguistiche, che stanno alla base, in molti studi, delle ricerche sui linguaggi specialistici, di cui il linguaggio giuridico è una manifestazione.

Un linguaggio specialistico è definito come una varietà della lingua comune parlata da specialisti in un determinato ambito. Il linguaggio giuridico è considerato uno dei linguaggi meno specialistici, in quanto la presenza di lingua comune e spesso di tematiche quotidiane è forte, e allo stesso tempo uno dei linguaggi più variegati, in quanto spesso contiene, oltre alla lingua comune, ulteriori linguaggi specialistici (e quindi, a rigore di logica, dovrebbe essere ancora più specialistico). Ciò è dovuto alla funzione che il diritto e il suo linguaggio hanno nella società: la normazione di elementi molto diversi fra loro, che presuppongono diversi termini tecnici. In questo senso il riferimento al piano orizzontale e verticale della comunicazione specialistica[2] è diretto: mentre il primo contraddistingue l’insieme delle diverse discipline, che pur essendo ben definite, presentano elementi di sovrapposizione, almeno nei grandi ambiti di riferimento, il secondo caratterizza invece le relazioni (anche di potere non solo comunicativo) fra i parlanti, principalmente esperti e non esperti.

Le somiglianze fra la lingua e il diritto sono molte: entrambi sono considerati sistemi, entrambi si basano sulla norma. Entrambi creano realtà con le parole.

Il fatto che il diritto sia considerato da Nencioni e da Savigny come un linguaggio è però criticato da altri studiosi giuristi, filosofi e sociologi (Sacco, Pigliaru e Geiger), in quanto non tutte le norme di un ordinamento sono entità linguistiche, non tutte sono codificate ante quem, ma spesso ex post, e non tutti sono esistenti come ordinamenti giuridici preesistenti alla parola scritta.

Esiste, ed è determinante, la dimensione pragmatica del linguaggio del diritto, considerato non solo dal punto di vista sintattico e lessicale, come linguaggio, ma soprattutto dal punto di vista delle relazioni che instaura e che gestisce. In quest’ottica si cercherà, nel contributo, di riflettere sulle norme in questione.

  • Linguaggio giuridico e potere

Come Cardona aveva ben messo in evidenza[3], la lingua è potere, da tanti punti di vista. Attraverso la lingua si definiscono i ruoli (simmetrici o asimmetrici, per esempio attraverso l’uso del tu o del lei, o di entrambi), e l’uso di particolari categorie definisce distanza e vicinanza (l’imperativo unidirezionale, la prosodia, il tono, il volume, i tratti extrasegmentali).

A questo si aggiunge il prestigio della lingua, che nel caso dell’utilizzo di linguaggi specialistici è di per sé dato: una delle caratteristiche di tali linguaggi è proprio quella di non essere compresi da tutti, di allontanarsi dalla lingua comune per specificità e precisione, attraverso modalità grammaticali come l’ellissi, l’uso di infiniti, di passivo, di spersonalizzazione, tutti elementi che, sebbene accorcino il testo, lo rendono più difficile nella comprensione e quindi altamente estraniante.

Inoltre, soprattutto in alcuni linguaggi, come in quello giuridico, esistono riti e un alto grado di formalismo che appesantiscono il testo, dandogli però allo stesso tempo una patina di prestigio e di distacco dalla lingua comune che può incutere quanto meno rispetto nell’ascoltatore.

Che la lingua sia un possibile strumento di potere abbiamo cercato di evidenziarlo sopra. Chi sa parlare, sa argomentare, può convincere, obbligare, creare una nuova realtà. Ed è la sociolinguistica ad analizzare i rapporti fra lingua e potere.

Lo studio dei rapporti di potere fra il discorso giuridico e i suoi partecipanti, uomini e donne, aiuta a capire la realtà, anche politica. Del resto, il potere democratico presuppone una lingua più trasparente perché legittimato dai cittadini.

Il linguaggio giuridico è sicuramente il linguaggio di maggior prestigio e potere. E’ un linguaggio conservativo, maschile, in parte arcaico, in cui prevale la logica della conservazione e la cosiddetta non marcatezza. Come in tutti i linguaggi e nelle lingue, si tratta di una scelta. Scrive Cossutta 2000, 93: “L’esperienza giuridica può essere intesa come uno dei momenti della comunicazione sociale; il ‘diritto’ può rappresentare uno fra i media comunicativi più formalizzati; infatti, la comunicazione giuridica, al fine di produrre gli effetti desiderati dall’emittente, deve necessariamente avvenire attraverso mezzi e lungo itinerari determinati”.

Il linguaggio giuridico è una finzione, nel senso che si tratta di una visione specifica della realtà, che serve ad un determinato fine, non della realtà. Una scelta, appunto, che serve a gestire le situazioni da normare, disciplinare ed eventualmente sanzionare. Ma come tutte le scelte, in questa selezione esclude altre visioni di realtà.

In questa scelta si inserisce anche l’uso del maschile al posto del femminile. Tutti i testi giuridici utilizzano il cosiddetto maschile inclusivo, o non marcato, intendendo con tale termine un uso valido al maschile e al femminile. La discussione su tale uso è viva, molti giuristi e molte giuriste ritengono che vada bene così, e ciò è vero anche per diverse linguiste da me interpellate. Ma se si interpretano le parole senza troppi filtri, si è portati a dire che il maschile è maschile ed esprime concetti relativi ad esseri di genere maschile, mentre il femminile esprime concetti legati ad esseri di genere femminile.

Tale fenomeno si riproduce non solo sui verbi, ma anche sui sostantivi. Il fatto che il linguaggio giuridico italiano sia quasi esclusivamente androcentrico, scegliendo sempre la versione maschile al posto di quella femminile, pur in un’accezione non marcata, riproduce una realtà sociale, culturale, storica di un certo tipo. Il primo riscontro è quello legato ai nomi delle professioni giuridiche, (il giudice, il magistrato, l’avvocato, il notaio), che solo lentamente, e non in maniera uniforme, si stanno trasformando ed adeguando alla realtà lavorativa con l’uso, per lo meno, dell’articolo femminile nel caso in cui sia una donna a ricoprire tali incarichi.

La semplificazione, sia dal punto di vista della riduzione ad una realtà, sia dell’uso delle parole, con utilizzo di parole della lingua comune (come indica il manuale per la redazione dei testi normativi del 2007) porta nella direzione di maggior condivisione dei testi giuridici e amministrativi da parte di cittadini e cittadine. Ma significa anche provocare un cambiamento dal punto di vista della lingua di genere, che lentamente, ma con costanza, si fa strada nella comunicazione quotidiana. Certi esempi di linguaggio giuridico (il buon padre di famiglia, la perizia dell’uomo medio) contrastano con la realtà nella quale spesso esistono famiglie in cui il capofamiglia è rappresentato da una donna, e il sapere dell’uomo medio è spesso quello della donna media. La locuzione “il buon padre di famiglia” che dovrebbe corrispondere all’idea di un’azione positiva e “diligente” rimanda ad un mondo in cui è il padre a gestire la famiglia, e non solo dal punto di vista economico-finanziario. L’espressione “la buona madre di famiglia” non solo non è recepita dalla giurisprudenza e dai testi normativi, ma potrebbe quasi far sorridere. Nella realtà di oggi sono molte le famiglie in cui il “buon padre di famiglia” non è presente e in cui è la donna a gestire i rapporti familiari e finanziari. Quello che emerge è sia la necessità di adeguare il linguaggio giuridico ad una nuova realtà, trasformandolo, creando, dove necessario, dei neologismi (come è avvenuto per il codice del diritto di famiglia, in cui si parla di responsabilità genitoriale, e non più di patria potestà – passando dalla potestà genitoriale), o ripensando l’uso esclusivo del maschile. In questo senso, è necessario che il giurista capisca quali sono gli elementi rilevanti, filtrandoli (decisione politica del legislatore) per poi renderli nella realtà normativa. In tutto questo il linguista può essere d’aiuto sia nella necessaria semplificazione del linguaggio, sia nell’attenzione ad un linguaggio rispettoso del genere e dei significati ad esso collegati. In questo senso il potere del linguaggio potrebbe diventare maggiormente democratico; un potere democratico presuppone una lingua più trasparente perché legittimata dai cittadini e dalla cittadine.

Se il linguaggio giuridico è una lingua di potere, pare chiaro che i suoi testi esprimano il potere di un parlante/scrivente di genere maschile. Anzi, nei testi si riscontra un uso esclusivo del maschile sebbene essi siano rivolti a persone di generi diversi, rendendo più difficile una corretta comprensione, come si cercherà di dimostrare con gli esempi seguenti, e un non rispetto per un gruppo consistente di persone, cittadine, che possono non sentirsi comprese nell’uso esclusivo del maschile.

Alla base di ogni accoglimento o rifiuto di novità linguistiche sta la percezione del parlante relativamente al concetto di normalità della lingua. Normale è ciò che non si discosta dalla norma. Ma la norma, anche quella linguistica, varia a seconda del contesto sociale e soprattutto del periodo storico. Quando nel 1963 vennero ammesse alla magistratura anche le donne, si creò la necessità linguistica di utilizzare un termine adeguato per rappresentare questa figura professionale. Quanti anni dovettero (e dovranno) passare per un utilizzo costante e coerente del termine magistrata (e non magistrato, donna magistrato per esempio)? Serianni, con un bel paragone, sostiene che la norma linguistica varia nel tempo come il senso del pudore. Entrambi sono legati al variare dei costumi e della sensibilità collettiva, da cui dipende la accettabilità o meno del gruppo sociale e della comunità linguistica.

La genericità dell’uso del maschile anche per il femminile è intesa da molte persone come complessiva; si usa il maschile ma si intende il maschile e il femminile. E’ davvero così? La lingua rievoca immagini maschili, nella maggioranza dei casi. Pensare ad un avvocato richiama l’immagine di un uomo, non di una donna. Lo stesso vale per il professore, per il direttore, per il chirurgo. Però poi di fronte ad affermazioni come «L’uomo è un mammifero perché allatta il suo piccolo» Anderson, 1988 l’immagine deve essere necessariamente quella di una donna. Si tratta quindi di costruire delle immagini, attraverso la lingua, che corrispondano alla realtà sociale.

E allora viene da chiedersi, ma perché invece quando si tratta di lingua di genere non si possono accettare le modifiche, considerandole brutte, fuori luogo, o addirittura negative per l’immagine complessiva della professione?[4]

Si tratta di una scelta, personale in primo luogo, ma anche istituzionale, perché solo l’uso costante di una lingua adeguata al femminile può entrare nella routine linguistica e diventare norma. Anche nel diritto il linguaggio si adegua a nuovi istituti, a nuove richieste sociali, a nuovi diritti (o a vecchi diritti, finalmente attuati).

Il modello di riferimento è sempre quello maschile: è la lingua declinata al maschile che serve come punto di partenza per la formazione del femminile. “In verità il tratto che ha disturbato maggiormente è che in molte lingue le opposizioni grammaticali e le categorizzazioni semantiche privilegerebbero il maschile, ovvero le lingue si adatterebbero perfettamente all’uomo in quanto iperonimo (l’essere umano) e in quanto iponimo (l’essere di sesso maschile). Il lessico e la grammatica risulterebbero sessisti, perché in essi predominerebbe il maschile per esprimere la referenza umana, che in tal modo assumerebbe una funzione non marcata, generica, detta anche ‘falsa generica’ o ‘pseudogenerica’ (false generic), cioè neutra” (Fusco, 2012, 17). Ma la lingua italiana ha due generi, il genere maschile e il genere femminile. Non esiste, come è stato più volte ribadito nella letteratura, un maschile non marcato, un maschile “neutro”: il maschile è inclusivo, eventualmente, ma non neutro. L’italiano non prevede, nelle sue categorie, un genere neutro[5]. Il tratto conservativo della lingua è quello legato al maschile arcaico.

  1. Lingua di genere

“Il ministro Fornero, la ministra Fornero o magari la ministro Fornero? E ancora: Fornero o la Fornero? Non si tratta, a differenza di quel che ritiene qualcuno, di minuzie grammaticali: come spesso accade con le cose di lingua, è in gioco qualcosa di molto più importante; in questo caso il rapporto tra i generi e l’adeguamento del parlare comune a mutati rapporti di prestigio“.

Serianni, Il Corriere della Sera, 3.3.2012

In fondo basterebbe l’affermazione di Serianni a far capire quanto determinante possa essere la lingua, e soprattutto il suo uso, per una corretta comunicazione. Corretta sia dal punto di vista grammaticale (la ministro Fornero è già un’infrazione alle regole elementari, che si imparano nella scuola primaria), sia soprattutto dal punto di vista sociolinguistico e pragmatico. L’uso del maschile non significa forse un maggior prestigio del maschile, e di conseguenza dell’uomo, sul femminile e sulla donna? La lingua non esprime sempre una realtà concreta a cui ci riferiamo, un’immagine di quello che consideriamo essere il mondo?

Espressioni che denotano clausole generali quali “buon padre di famiglia”, “destinazione del padre di famiglia”, cosi come singoli concetti tali “figlio naturale, legittimo, riconosciuto”[6], “tutore”, “erede”, comunicano immediatamente il deciso orientamento di genere del linguaggio alla realtà sociale e professionale italiana attuale. Diversamente, esistono espressioni che, nel panorama giuridico, hanno conosciuto un adeguamento a nuove realtà. Si pensi, ad esempio, all’espressione “patria potestà” poi sostituita da “potestà genitoriale”, nell’ambito del diritto di famiglia (ed ora “responsabilità genitoriale”).

  1. Analisi di testi giuridici

I testi qui analizzati sono la:

  • Legge 8 marzo 2000, n. 53: “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”
  • E il decreto legislativo 26 marzo 2001, 151 testo unico; “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternita’ e della paternita’, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53”

Il primo atto normativo è una legge, composta di 7 capi e 28 articoli. Si tratta di un testo che riassume sia la tematica dei congedi parentali, familiari e formativi, sia la flessibilità di orario, che ulteriori misure a sostegno di maternità e paternità. Inoltre istituisce l’obbligo della scrittura di un testo unico (che si concretizzerà nel decreto legislativo qui sotto analizzato, e modifica alcuni articoli di leggi precedenti. Tale legge riporta una serie di indicazioni utili per capire i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici quando decidono di diventare genitori. Le norme esposte riguardano in primi l’astensione, obbligatoria e facoltativa.

Il secondo documento invece è un decreto legislativo nato dopo la scrittura della legge 53, che diventa testo unico di riferimento, con l’obiettivo di porre ordine alle diverse leggi esistenti sull’argomento. Delle caratteristiche di un testo unico dovrebbe esserci un alto grado di coesione, non solo a livello tematico, ma anche a livello di uniformazione e unificazione del linguaggio. Rappresenta una estensione dell’art.15 della sopra citata legge 53.

Il decreto legislativo consta di 16 capi, e di 88 articoli, a cui vengono aggiunti quattro elenchi, con i lavori pericolosi, e le diverse assicurazioni per i lavoratori (sic!). Le tematiche principali coinvolgono i riposi giornalieri per allattamento, il divieto di licenziamento in caso di gravidanza, la tutela contro le discriminazioni ed il divieto di adibire a lavori pericolosi la donna in gravidanza.

  • Legge 53, 2000

Nella prima analisi del testo si riscontra un’attenzione (che si pensava scontata) all’uso di una lingua adeguata al genere. Nel testo si trova infatti spesso la dicitura lavoratrici e lavoratori, con qualche inversione in lavoratori e lavoratrici. Si parla di lavoratrici, madri, di lavoratrice madre e di lavoratore padre (non sempre univoco: si trova anche padre lavoratore e madre lavoratrice), anche di genitori, ma si usano esclusivamente le forme del maschile per tutte le altre parole (e persone) coinvolte: si trova sempre il bambino o il minore, il datore di lavoro, il richiedente, il dipendente, i soggetti, il titolare d’impresa, l’imprenditore, il lavoratore autonomo, in tutti quei casi in cui la generalizzazione indica unicamente il maschile come forma di riferimento.

E ancora, nell’art. 25, si indica il sindaco, il responsabile, il rappresentante, il dirigente, i presidenti, gli imprenditori, il provveditore, i cittadini.

In questo testo di legge, anche per la materia disciplinata, emerge che il legislatore (o la legislatrice?) si è sforzato a etichettare, in modo corretto, la persona portatrice di diritti e di doveri, a seconda della situazione illustrata. Ciò però avviene solo quando si intende un unico soggetto, e mai quando si deve generalizzare. E’ il caso già dell’art. 3, in cui si legge “il bambino” e si intende certamente la possibilità che sia una bambina. O ancora, dell’art. 12, in cui si indicano “le lavoratrici” che devono essere visitate da “un medico specialista”; in una frase successiva, il dialogo è fra la “gestante” e “il nascituro”.

L’art. 15 è molto significativo, dal punto di vista linguistico, perché esplicitamente, alla lettera c), recita, nell’elenco dei passi da compiere per l’attuazione della legge: “ coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa, anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo”.

Tale adeguamento dovrebbe riguardare anche l’univocità dei termini utilizzati, e la ritualità. Nell’analisi del decreto legislativo di attuazione non sempre sarà questa la realizzazione. Un esempio in questo senso nella legge 53 è legato alle espressioni: lavoratrice madre vs. madre lavoratrice, e l’omologa espressione “lavoratore padre vs. padre lavoratore”. Le due locuzioni sono usate come sinonimi, nel testo di legge, mentre la diversa dislocazione pone il focus ora sulla parola madre, ora su quella di lavoratrice.

4.2   Decreto legislativo 151, 2001

Il decreto in oggetto è un testo più lungo della legge, completato da tre appendici; si tratta di un testo maggiormente operativo e concreto, proprio per la sua natura di attuazione di una legge. E’, come scritto sopra, un testo unico, che dovrebbe valere come riferimento normativo per tutte le questioni riguardanti tematiche legate alla maternità, alla paternità, alla conciliazione di tempo di lavoro e tempo di vita personale.

In questo testo, è costante l’espressione “lavoratrice o lavoratore”. Nello stesso articolo, 28, si trova la forma “il padre lavoratore e la lavoratrice”, quindi espressione non simmetrica.

Nell’art. 32 la forma utilizzata “genitore richiedente” è una buona soluzione per evitare la ripetizione e allo stesso tempo essere adeguato alla realtà comunicativa. Nel comma precedente, invece, è presente la forma duplicata.

In altre espressioni, come accade nel testo di legge, si usa la forma non declinata al femminile, soprattutto nel senso di inclusiva. Si trovano quindi, anche ripetuti, il datore di lavoro, i dipendenti, i soci delle cooperative, i terzi, i soggetti iscritti al fondo pensioni. Anche in questo testo, la prole è declinata sempre al maschile: si trova la parola figlio, minore, bambino. Nell’art. 47 il testo “scivola” nel maschile anche relativamente alla locuzione “lavoratrice/lavoratore”.

  1. Conclusioni

Nella prima analisi di questi testi normativi, che si è focalizzata sulla scelta lessicale del legislatore, cercando di mettere in evidenza la coerenza e la costanza della scelta, è emerso che, rispetto ad altri testi di legge, la presenza della donna è esplicita (e come potrebbe essere altrimenti, visto il tema?). C’è un’attenzione in entrambi i testi allo sdoppiamento, e quasi sempre all’attribuzione del femminile o del maschile in modo corretto. Quello che emerge è però anche l’uso di un maschile inclusivo per tutti quei ruoli che non riguardano direttamente “la lavoratrice madre o il lavoratore padre”. E’ chiaro che in questa denominazione l’attenzione del legislatore è quasi costretta ad un uso differenziato del termine; tale scelta però viene ripetuta spesso anche per lo sdoppiamento “lavoratrice e lavoratore”, che secondo le tradizioni del linguaggio giuridico italiano non sarebbe così normale. In questo senso, si assiste, in questi due testi normativi, ad un cambiamento verso la lingua adeguata al genere.

Resta, come detto sopra, un’abitudine all’inclusività per molti ruoli presenti nelle leggi.

  1. Bibliografia

Beaugrande, R.A, Dressler, W.U (1987), Introduzione alla linguistica testuale, Bologna, Il Mulino

Berruto, G. (2004), Prima lezione di sociolinguistica, Roma-Bari, Laterza.

Cardona, G. R. (1980). Lingua e potere; imperialismi, minoranze e politiche linguistiche, Milano, Fondazione Feltrinelli, 9.

Cavagnoli, S. ( 2007), La comunicazione specialistica, Roma, Carocci.

Cavagnoli, S. (2013), Linguaggio giuridico e lingua di genere: una simbiosi possibile, Alessandria, Edizioni dell’Orso

Conte M.E. (1999), Condizioni di coerenza. Ricerche di linguistica testuale, Alessandria, Edizioni dell’Orso

Cossutta, M. (2000), Digressioni intorno alla correttezza del comunicare giuridico, in Kemol, E., Pira, F. (a cura di), Comunicazione e potere, Padova, Cluep, 93-106.

Fusco, F. (2012), La lingua e il femminile nella lessicografia italiana. Tra stereotipo e (in)visibilità, Alessandria, Edizioni dell’Orso

Migliorino, F. (2008), Il corpo come testo, storie del diritto. Milano, Bollati Boringhieri.

[1] Si vedano, come riferimenti principali, Beaugrande Dressler, 1987, Conte 1999.

[2] Cavagnoli, 2007b, 65-71.

[3] Cardona 1980.

[4] E’ una questione mai sopita. Anche Derrida (1995, 186) commenta un discorso di Schmitt, in cui la donna non esiste: si parla di fratricidio senza riflettere sulla differenza fra fratello e sorella; le sorelle appartengono alla specie del genere dei fratelli.

[5] Cavagnoli, 2013, Berruto 2004, 115-125.

[6] La modifica alla legge sui figli naturali è la dimostrazione che la realtà cambia le parole, e le parole modificano la realtà. D’ora in poi si parlerà, anche a livello di linguaggio giuridico, solo di figli.

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