GRAMMATICA E SESSISMO

CENTRO DI RICERCA DIPARTIMENTALE MULTIDISCIPLINARE

Il sindaco donna? La sindaca? riflessioni sul potere della lingua in ottica di genere

di Stefania Cavagnoli

Parlare e scrivere di lingua è allo stesso tempo difficile e molto facile: tutti i parlanti e le parlanti una determinata lingua hanno una competenza metalinguistica, o dovrebbero averla, per poter usare la lingua non solo per comunicare, ma anche per riflettere sui fenomeni linguistici della quotidianità.

Spesso però questa competenza si riduce ad un uso di stereotipi, o ad una sopravvalutazione delle proprie competenze.

Mi capita di notare questo atteggiamento soprattutto rispetto ad alcuni fenomeni linguistici che in questo periodo storico sono molto presenti nella discussione pubblica, anche sociopolitica. Un tema è quello dell’educazione plurilingue, dei suoi svantaggi e vantaggi, e delle vie possibili per una realizzazione (voluta davvero?). Le discussioni sui possibili svantaggi, fondati su chissà quali teorie scientifiche, prevalgono sui vantaggi, nell’opinione di molte persone (genitori, insegnanti, perfino insegnanti di lingue straniere), mentre nella realtà prevalgono i vantaggi.

L’altro, di cui cercherò di fare il punto con questo mio contributo, quello dell’uso della lingua di genere, o meglio, della lingua adeguata al genere.

Negli ultimi anni si parla sempre di più di lingua (o, in modo errato, di linguaggio) di genere. La causa di tale aumento l’incremento delle donne nella vita pubblica, politica e professionale. L’esigenza di fare chiarezza, di trovare modi adeguati di dire, in realtà è antica; il libro di riferimento, per la lingua italiana, è il volume pubblicato nel 1987 da Alma Sabatini, per i tipi della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal titolo: Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua.[1] C’è quindi bisogno, maggior bisogno rispetto a prima, di dare un nome alle cose, e nello specifico, alle persone. La lingua funziona così, e non solo nell’ambito del genere. Con i suoi meccanismi di risemantizzazione, o di flessione, o di neologismo, si adegua alla nuova realtà. Di solito, i parlanti e le parlanti di una lingua accettano le nuove forme, le usano, soprattutto se sono esterofile, rimandano a lingue diverse; poche sono le persone che si innervosiscono di fronte a nuove forme, che possono suonare “strane”, come tutte quelle forme legate ai social e alla comunicazione informatica. Tale accettazione invece non si ritrova quando le nuove parole sono legate alle donne, e soprattutto ai loro ruoli professionali di potere.

Cercherò di riflettere su questa affermazione partendo da esempi concreti, e molto recenti.

Qualche esempio recente

Navigando in internet, o leggendo i quotidiani, soprattutto i titoli, o i manifesti appesi nelle nostre città si incontrano molti esempi di non rispetto della lingua di genere. Tre sono principalmente i modelli:

  1. il primo è quello al maschile cosiddetto inclusivo, o peggio ancora, maschile neutro, che implica la non rappresentazione del femminile, usando solo il maschile anche per le donne, perfino in situazioni di evidente ilarità, come nel caso di uno studio medico, in cui si invitavano i pazienti a dichiarare lo stato di maternità.
  2. Il secondo è quello del raddoppiamento, della specificazione di un termine al maschile con il sostantivo “donna”, come nel caso illustrato qui sotto:

 istruttrici

In italiano esiste la parola “istruttrici”, ed è una parola che ormai è entrata nell’uso quotidiano, una parola che non dà vita a risolini e battute. Una realizzazione linguistica che si basa sulla regola di formazione di una parola maschile in –tore, che al femminile si concretizza con la desinenza –trice. Per verificare la stranezza di un tale raddoppiamento basterebbe provare a trasformare al maschile. Si direbbe “istruttori uomini”? Si direbbe “poliziotto uomo”, “giudice uomo”? Eppure si dice “poliziotto donna”, “giudice donna”, quando l’italiano ci suggerisce l’uso di” poliziotta” e di” la giudice”, intervenendo solo sull’articolo in quanto nome epiceno, che non prevede la flessione in base al genere.

  1. Il terzo esempio è il più eclatante per spiegare l’ipotesi che la lingua sia una questione di potere, e non solo di grammatica; in questo esempio si nota l’uso del femminile per un termine, ma del maschile per un altro. Entrambi i termini sono rivolti ad un’unica persona, che è una donna. La domanda spontanea è quindi: ma perché la donna in questione può essere coordinatrice ma non direttrice artistica?

La risposta, purtroppo, è semplice. Perché coordinatrice è ormai in uso, ed è una funzione di medio livello. Direttore invece è un ruolo dirigenziale, più elevato, prettamente maschile. A cui si somma l’idea che il rimando concettuale di direttrice è quello della direttrice scolastica, evidentemente, nell’immaginario collettivo, un ruolo minore.

Emerge chiaramente che il problema non è relativo ad un semplice cambio di desinenza, ma è una questione più profonda, che tocca le viscere di chi parla, e che spesso, proprio per questo motivo, suscita due reazioni, ben prevedibili: o si fa passare il tema come una questione di lana caprina, che occupa spazio rispetto a problemi ben più grossi, oppure dà vita a reazioni stizzite, inverosimili, esagerate. Entrambi i poli non rendono giustizia al tema.

Se le indicazioni dell’Accademia della Crusca, organo prestigioso e indirizzo per la lingua italiana, ci dicono di utilizzare il femminile, si potrebbe perfino ribaltare la questione e dire semplicemente di utilizzare SEMPRE la grammatica; infatti, le indicazioni della Crusca si rifanno alle professioni di livello, alle cariche istituzionali, perché non c’è necessità di ribadirlo per le professioni “basse” (maestra, infermiera, operaia, fiorista…). Se applicassimo la grammatica a tutti casi allo stesso modo nessuno/a si risentirebbe alla parola ministra, procuratrice, sindaca.

Osservando nel corso degli anni la comunicazione di genere, ci si accorge che le reazioni di uomini e donne sono diverse; e non come ci si potrebbe aspettare. Spesso gli uomini, dopo un iniziale momento di spaesamento, condividono l’uso al femminile, alcuni condividendone le motivazioni, altri come se non fosse una cosa che li riguarda direttamente. Le donne di dividono in due gruppi ben distinti; coloro che comprendono l’importanza di una rappresentazione linguistica reale, corrispondente alla realtà, e coloro che rifiutano la declinazione al femminile della loro carica, soprattutto se di un certo livello. “Ho studiato tanto per diventare avvocato e ora mi chiami avvocata?”, come se il maschile e il femminile dello stesso sostantivo veicolassero contenuti professionali diversi.

Appena le professioni sono relative alle sfere del potere come ad esempio nel caso di ministro, sindaco, prefetto o questore, alcune donne spesso usano la giustificazione che si tratta del ruolo, e il ruolo è generalmente assegnato a uomini, oppure si argomenta che il raggiungimento della carica è stato molto difficile e il farsi chiamare al maschile viene visto come una sorta di riconoscimento del proprio valore. Il problema di fondo è che nel dire ciò la donna dà per scontato che la professione al maschile sia asimmetrica rispetto al femminile. E cioè che la professionalità di un uomo valga di più di quella di una donna. Per cui, quella che si può definire come banale questione di grammatica rappresenta in realtà una potente questione di differenziazione di potere.

Se si pensa alla professione di giudice, per esempio, si constata che il tempo per adeguarsi alla nuova realtà socio-lavorativa, e quindi linguistica, c’è stato; dal 1963, più di cinquant’anni fa, le donne possono accedere alla magistratura, eppure la stampa, e molte professioniste del diritto continuano ad usare il maschile per definirsi e definire. La realtà modifica la lingua e la lingua modifica la realtà, sulla base di regole grammaticali molto semplici. Che si tratti di una questione di potere è chiaro, ed è dimostrato dal fatto che, mentre si discute sulle forme femminili come cacofoniche, non ci si interroga nemmeno su altre forme, come linkare, interfacciare, … che sicuramente suonano peggio di ministra.

Si dice manchi una coscienza di genere, nell’avvicinarsi alla lingua. Forse semplicemente, soprattutto in ambito professionale, il modello è unicamente maschile. Le donne si rappresentano spesso sparendo; l’immaginario legato alle parole è fortemente tradizionalista, e si muove su immagini solidificate nella cultura. La frase: “il chirurgo opera il paziente” è interpretata, se non si hanno riferimenti contestuali, come la presenza di due uomini, mentre nel primo termine potrebbe essere una donna. In questa frase si nota come per alcune parole sarebbe normale, nell’interpretazione, utilizzare la paziente.

Un’ulteriore dimostrazione del potere linguistico, dell’asimmetria della resa linguistica. La posizione numero uno nella frase è sicuramente più di potere della seconda (che può, invece, essere descritta al femminile e spesso lo è).

Cosa è possibile fare per cambiare la situazione? Educare ad un uso corretto ed adeguato della lingua italiana. Un uso che corrisponda alla realtà, che è in continuo mutamento. A scuola si insegna a rispettare le concordanze, ad utilizzare il maschile e il femminile; si segnano errori quelle discordanze che poi, nella stampa quotidiana, non vengono più sanzionate. “Il sindaco Raggi è stato eletta a Roma? “

Due sono i piani, che vanno tenuti ben distinti; quello personale, che non ricorre a sanzione, ed è bene che sia così, è la persona che decide come utilizzare la lingua italiana nella sua comunicazione. Quello istituzionale, che ha un dovere in più, e che quindi deve utilizzare una lingua adeguata al genere. La grammatica della parità, oltre ad avere l’obiettivo di rappresentare l’effettiva presenza delle donne anche in professioni considerate alte, serve a fare maggiore chiarezza. Questo aspetto ha rilevanza anche da un punto di vista giuridico. Se trovo un cartello che dice “l’avvocato riceve alle 14” io mi aspetto di trovare un uomo, mentre magari voglio rivolgermi a una donna.

Sono le istituzioni, e la stampa, ad avere il ruolo principale nelle modifiche relative alla lingua; la scuola ha un ruolo importante, ma paradossalmente, via via che si sale nella formazione, dedica meno riflessioni alla questione della lingua di genere. In una analisi svolta nel mio corso di linguistica le studentesse hanno dimostrato che bambini e bambine della scuola primaria non hanno problemi a volgere al femminile una serie di professioni al maschile, ricorrendo quindi alle regole grammaticali acquisite. Ragazze e ragazzi della scuola secondaria di primo grado incominciano ad avere qualche dubbio nella formazione delle professioni, mentre quelli della scuola di secondo grado preferiscono utilizzare il maschile anche nelle forme femminili. Allo stesso modo si comportano i e le docenti della scuola in questione.

La stampa ha incominciato, negli ultimi anni, ad oscillare nell’uso del maschile e femminile relativo alle cariche politiche ed alle professioni. Tale oscillazione è un segnale positivo per il cambiamento linguistico, sebbene possa creare problemi di comprensione, come nell’esempio seguente, pubblicato su Repubblica,il 1 luglio 2016, p. 7: In un riguardo di legge “La prima cittadina studia l’idea di portare in ritiro la “squadra” per fare team building”; in un altro, sulla stessa pagina: “Il primo cittadino cita Olivetti e porta subito la maggioranza in ritiro”. Come se Torino avesse un sindaco e una sindaca…

Ho fatto una ricerca su sei mesi di quotidiani e ho notato che, indipendentemente dal tipo di quotidiano, alcune parole non presentano mai oscillazione, ma si sono trasformate al femminile. La forma senatrice, ad esempio, è ormai stabilmente accettata, mentre per ministra e sindaca le oscillazioni ci sono ancora. Il caso della parola senatrice dimostra che il femminile può diventare normale e per normale intendo qui ciò che non si allontana dalla norma. La norma deve essere vista come qualcosa che cambia, che si modifica. È ovvio che non esisteva magistrata se non esisteva la figura della donna in magistratura. Oggi esiste, ad esempio, l’astrofisica Samantha Cristoforetti, perché la devo chiamare al maschile?

Bartezzaghi, in un suo articolo del 1 agosto 2016 su l’ Espresso scrive di obiezioni ridicole, riferendosi alle forme al femminile e ai neologismi che, secondo l’autore, “scatenano antipatie violente”: il motivo? Continua Bartezzaghi: “Una specie di linguistica selvaggia decreta che «sindaco» e «ministro» sarebbero indeclinabili per genere. Molto diffusa la spiritosaggine per cui si accetterà di dire «ministra» quando si potrà dire anche «guardio».” Più che di una spiritosaggine, penso si tratti di ignoranza di linguistica storica.

Riprendendo il pensiero del potere e del suo rapporto con la lingua, appare molto chiaro se si analizzano le diverse professioni; più una carica è alta, di prestigio, più la motivazione di chi usa il maschile è legata alla funzione, e non alla persona di riferimento. Tale motivazione crolla però in modo disastroso se si applica ad una carica o ad una professione considerata bassa, esecutiva. Valga l’esempio di maestra, di operaia, di infermiera; nessuno si sognerebbe di designare al maschile donne che sono operative in questi lavori.

Tutto è legato esclusivamente al fatto che per le professioni considerate più alte si entra nella sfera del potere e della rappresentazione delle donne dentro la società, dove quello che non si nomina non esiste. E forse questo è la vera causa perché, come già accennato sopra, il tema della lingua di genere suscita sempre due reazioni principali: o dà vita a nervosismi, aggressività, opposizione quasi violenta, o provoca ilarità, come se fosse una questione inutile, minore, a cui si oppongono le lotte per i “veri” diritti. La nostra lingua è androcentrica, descrive un mondo al maschile, in cui il modello è quello rappresentato dall’uomo, con le sue strategie, abitudini, competenze professionali, che possono, e spesso sono, diverse da quelle rappresentate dalle donne. Se le reazioni sono queste, ciò significa che parlarne non è né banale, né inutile, perché sono questioni che riguardano le nostre categorie di riferimento. Si tratta di un problema culturale, che nell’applicazione diventa sociale. Occuparsi delle parole non vuole dire trascurare i diritti. Un maggior riconoscimento anche nominale dà maggiore visibilità alle donne nella società, soprattutto quando queste raggiungono posizioni di vertice. Credo che risultati positivi per le donne possano essere raggiunti solo se ci saranno cambiamenti sul piano del linguaggio e della cultura.

“Per quanto immotivato, il sentimento popolare verso le parole ha una forza non trascurabile. Ci vuole dunque pazienza e molte più donne in posizioni considerate tradizionalmente maschili. L’abitudine, quando ce la si farà, renderà ridicola ognuna di queste obiezioni.”[2] Forse la soluzione è proprio questa; abituare all’uso del femminile, partendo dalla scuola, dalla formazione[3], ma soprattutto dalle istituzioni e dalla stampa.

[1] http://www.funzionepubblica.gov.it/sites/funzionepubblica.gov.it/files/documenti/Normativa%20e%20Documentazione/Dossier%20Pari%20opportunità/linguaggio_non_sessista.pdf

[2] Bartezzaghi, 2016

[3] Come ha fatto da ultimo l’ateneo bolognese, che ha ufficialmente deciso di usare la lingua in modo adeguato al genere; non solo politicamente corretto, ma anche grammaticalmente corretto. Su Repubblica, 29 giugno 2016

http://bologna.repubblica.it/cronaca/2016/06/29/news/universita_di_bologna_la_rivoluzione_rosa_parte_dal_linguaggio-143021546/