di Francesca Dragotto
Compito di un dizionario è definire lo spazio occupato da ciascun segno della lingua di cui intende fornire una rappresentazione.
Definire è infatti de-finire, ovvero tracciare una linea di confine rispetto alla quale il mondo significato dalla lingua si divide tra dentro e fuori.
Operazione delicata, giacché destinata a determinare un punto di riferimento insieme individuale e collettivo per i parlanti di quella lingua, del definire ci si dimentica spesso che a] consiste in una chiusura forzata entro limiti di necessità rigidi di una sostanza che invece, per sua natura, è tendente al magmatismo e che b] l’atto stesso della chiusura è condotto da persone in carne d’ossa.[1] Da persone dotate ciascuna di vissuto, di un dizionario per esprimerlo compreso, per ovvie ma mai abbastanza sottolineate ragioni, in quello della cui compilazione si è responsabili e, soprattutto, di valori più o meno consapevolmente associati a ciascuna forma di questo dizionario. Valori che, dunque, difficilmente prescinderanno dalla propria matrice cognitiva, inclusiva di pregiudizi, stereotipi e rappresentazioni condivise da gruppi più o meno consistenti di individui.
Precedente e successivo alla definizione del dizionario, l’uso di un termine detiene con il dizionario un rapporto al contempo di necessità e di compromesso.
In quanto precedente, il termine nuovo – in tutto o in parte, come nel caso di una innovazione limitata al significato o neosemia – troverà nel dizionario la propria consacrazione, giacché attraverso di esso ne sarà decretata la sacralità alle orecchie della massa parlante, quell’insieme innumerabile e disomogeneo di individui che, alludendo al ‘nuovo’, ne sancirà l’esistenza per mezzo di locuzioni formulari quali questa parola significa…
In quanto frutto di una selezione, il dizionario lessicografico – poco importa almeno stando alla situazione attuale quale sia la sua natura materiale – non coinciderà mai per intero, nell’estensione, con quello collocato nella mente di ciascun parlante e da questa mancata coincidenza conseguirà, con una probabilità che nel caso del lessico di uso con comune può approssimarsi alla certezza, una deriva semantica che porterà il termine a essere impiegato nella comunicazione con un significato di norma compreso o almeno vicino a quello lessicografico, ma a volte, in special modo in coincidenza di lemmi dotati di carica ideologica o intellettuale, distorto o decisamente parziale.
Scopo di questa riflessione sarà la misurazione del grado di sovrapposizione tra il femminicidio dei dizionari lessicografici e il femminicidio dei dizionari mentali dei parlanti italiani.
Non potendo – e per ragioni che potrebbero valere per ogni indagine di natura semantico-pragmatica e per ragioni connesse con l’estensione e la collocazione di questo contributo – procedere a un carotaggio sistematico degli usi idiolettici del termine, ci si accontenterà di ripiegare su una valutazione della collocazione del termine nel repertorio linguistico italiano fondata sul ricorso al filtro esercitato dall’impiego di femminicidio nella comunicazione giornalistica. Limitazione, questa, in sé più che accettabile, giacché l’ambito così ritagliato viene a coincidere con quella che per la gran parte dei parlanti costituisce la fonte principale o esclusiva di approvvigionamento del termine.
Una disamina anche cursoria degli usi del termine mostra infatti che la semantica primigenia di femminicidio, squisitamente sociologica, risulta ai parlanti italiani di una estraneità della quale difficilmente si può dubitare. E ciò a dispetto dell’attività ancora in essere della sua coniatrice, Marcela Lagarde, i cui scritti, anche definitori di quelle violenze per le quali ha ritenuto necessario procedere al conio neologico distinguendo la nuova entità dal femmicidio della criminologa Diana Russell,[2] ancora oggi continuano ad essere citati.
Questa la definizione lagardiana, pluricitata da fonti accomunate dall’impegno sociale e di denuncia ma anche da repertori enciclopedici, linguistici o multimediali di indubbia autorevolezza:
La forma estrema di violenza di genere contro le donne prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine che comportano l’impunità tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa (Rai.it)
«In esso, oltre all’omicidio, racchiude anche tutte le discriminazioni e pressioni psicologiche di cui una donna può essere vittima», si legge in una pagina di approfondimento del TGR del portale Rai.it, intitolata “FEMMINICIDIO, DI GENERE SI MUORE”, dalla quale è stata ripresa anche la citazione, virgolettata. Nello stesso articolo, in un punto precedente, subito dopo il titolo, chi scrive avverte la necessità di precisare che «La parola femminicidio suona male. Però serve. Definire in modo appropriato la categoria criminologica del delitto perpetrato contro una donna perché è donna, è necessario», anticipando in forma di glossa esplicativa la definizione d’autrice.
Quanto all’estensione del neologismo di Lagarde, poi, va rilevato che:
- è più ampia di quella di omicidio di una donna, che costituisce la forma di violenza estrema e apicale di una scala di violenze;
- è marcata da un punto di vista sociologico e sociale, dal momento che comprende il riferimento anche allo Stato e alla società;
- in sé non esclude che a perpetrare la violenza possa essere anche una donna mossa da pulsioni misogine. Il riferimento all’uomo benché abbastanza probabile non può infatti essere dato per ovvio per il solo fatto di invocare il genere, dal momento che non si precisa che a rendersi protagonista attivo della violenza della essere un esponente dell’altro genere o di un altro genere.
Anche volendo escludere quest’ultima possibilità perché tacciabile, da chi osservi il fenomeno da una prospettiva non metalinguistica, di mera capziosità, non si potrà non convenire che per la sua stessa fattura femminicidio pone dei problemi al repertorio della comunità linguistica italiana.
La sua natura di composto in –cidio ne determina infatti, e senza possibilità di eccezione, l’inserimento, da parte dei parlanti, nella serie comprendente suicidio, omicidio o micidio, fratricidio, sororicidio, matricidio, parricidio o patricidio – con il primo, continuatore del latino arcaico parricidas, presente già nelle leggi delle XII tavole, il più antico testo di diritto romano –, muliericidio – tanto caro ai contestatori di femminicidio –, uxoricidio o ussoricidio, coniugicidio – nel diritto canonico –, infanticidio, feticidio, regicidio, tirannicidio, deicidio, etnocidio, genicidio o genocidio, liberticidio, culturicidio, ecocidio, tutte formazioni neoclassiche a partire dal verbo latino caedere ‘uccidere, fare a pezzi, etc.’[3]
Una famiglia non numerosissima, ma neppure ristretta, il cui riferimento sembra dividersi tra un primo grosso gruppo, che va a ricoprire l’ambito della relazione personale tra ucciso e uccisore (o l’uccisore stesso per suicidio) e un secondo gruppo, in cui la relazione tra uccisore e ucciso può essere concreta – e riguardare figure politiche e religiose – oppure figurata, come nel caso dell’”uccisione”, non necessariamente da parte di un soggetto animato, di istituzioni di alto valore civile e morale.
L’inclusione di esiti diversi dalla morte nella semantica di femminicidio costituisce perciò un primo punto problematico e predetermina, adottando la prospettiva della competenza metalinguistica – nella fattispecie morfologica – del parlante italiano, il rischio di una imperfetta categorizzazione ed “etimologizzazione” del termine, con ciò intendendo l’azione di dare significato compiuta dal parlante nell’atto del contatto con una neoformazione.
Questa potrebbe del resto essere la ragione degli scarsi benefici del copia-incolla della definizione lagardiana, tangibili allorquando si decida di misurarne l’estensione con quella offerta da repertori molto familiari agli utenti.
Tra i tanti, se ne propongono tre, diversi per tipologia testuale di riferimento. I neretti, di chi scrive, sono facilitanti per seguire la logica che si sta portando avanti.
Wikipedia
Il termine femminicidio, nella sua accezione contemporanea, è un neologismo che identifica quei casi di omicidio doloso o preterintenzionale in cui una donna viene uccisa da un uomo per motivi basati sul genere. Esso costituisce dunque un sottoinsieme della totalità dei casi di omicidio aventi un individuo di sesso femminile come vittima. Un aspetto spesso comune a tale tipologia di crimini è la sua maturazione in ambito familiare o all’interno di relazioni sentimentali poco stabili.
Treccani.it, voce a cura di Valeria Della Valle
La parola femminicidio esiste nella lingua italiana solo a partire dal 2001. Fino a quell’anno, l’unica parola esistente col significato di uccisione di una donna era uxoricidio. Ma uxoricidio, composta con quella parola latina, uxor, quindi moglie, alludeva per l’appunto solo all’uccisione di una donna in quanto moglie e veniva estesa anche agli uomini, quindi al coniuge in generale. Non avevamo una parola che alludesse all’uccisione della donna proprio in quanto donna. […] La parola femminicidio si è diffusa nella lingua italiana a partire dal 2008. In quell’anno è stato pubblicato da Barbara Spinelli un libro intitolato Femminicidio. […] Contrariamente a quanto si sente ripetere spesso, femminicidio non è una brutta parola. È una parola formata del tutto regolarmente, unendo e componendo insieme la parola femmina, con quella parte finale -cidio, che ha il significato appunto di uccisione. Uccisione di una donna.
[…] La fotoreporter Donna Ferrato ha per anni documentato la violenza domestica negli Stati Uniti. Nel libro fotografico Living With The Enemy ha raccolto le immagini di decine di vittime, ritratte con una prospettiva empatica e rispettosa. Premiata con l’Eugene Smith Grant, ha continuato a fotografare il dolore provocato dietro la porta di casa con il progetto “I am Unbeatable”. Perché sì: perché a volte leggere non basta, bisogna vedere.
“Ho letto decine di storie vere e ho immaginato un paradiso popolato da queste donne e dalla loro energia vitale. Sono mogli, ex mogli, sorelle, figlie, fidanzate, ex fidanzate che non sono state ai patti, che sono uscite dal solco delle regole assegnate dalla società, e che hanno pagato con la vita questa disubbidienza. Così mi sono chiesta: ‘E se le vittime potessero parlare?’ Volevo che fossero libere, almeno da morte, di raccontare la loro versione, nel tentativo di ridare luce e colore ai loro opachi fantasmi”. (S.D.) Questo libro è subito diventato un testo di riferimento per chi vuole informarsi sul femminicidio. […]
Devoto-Oli 2009
[…] qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte.
Zingarelli 2015 – definizione
[…] uccisione o violenza compiuta nei confronti di una donna, spec. quando il fatto di essere donna costituisce l’elemento scatenante dell’azione criminosa.
Zingarelli 2015 – definizione d’autore, a cura di Serena Dandini
Molti si chiedono perché è stata necessaria l’introduzione di una nuova parola, femminicidio, per un crimine che alla fine è “un omicidio come un altro”. Semplicemente perché non è un omicidio come un altro. Dietro alla catena ininterrotta di donne uccise in quanto donne c’è un grande movente che va portato allo scoperto, un nemico che si annida in ogni tipo di cultura o società: è l’atteggiamento culturale dominante che considera una moglie, compagna, fidanzata, figlia, sorella – insomma una donna –, come “qualcosa” da possedere e non “qualcuno” con pari diritti e dignità. Se la parola non vi piace, inventatevi un altro neologismo, troviamo insieme un termine più aggraziato e pertinente. Ma non facciamo finta che il dramma non esista.
In queste tre de-finizioni di femminicidio, operazioni di inclusione di un frammento della realtà che con l’atto definitorio si vuole sancire una volta per tutte grazie al crisma dell’auctoritas lessicografica, si possono riscontrare tutte le criticità che l’uso del termine ha soltanto amplificato.
Il più palese è forse proprio il caso di Zingarelli, che decidendo proprio per l’importanza del concetto di riservare al suo denotante linguistico anche una definizione d’autore, fa succedere a brevissima distanza uccisione o violenza e omicidio.
Non diversa – e non c’è regione per cui ci si dovrebbe aspettare una differenza, anzi, semmai l’opposto, visto il minor grado di controllo della lingua dei media – la situazione di oscillazione offerta dalla cronaca giornalistica cartacea e web, dalla quale sono stati recuperati gli esempi seguenti, selezionati in base al criterio della primazia nella restituzione da parte dei motori di ricerca, peraltro e purtroppo soggetta a ripetute modificazioni per la diffusione delle notizie di nuovi femminicidi. Anche in questo caso i neretti sono di chi scrive.
La violenza nelle mura domestiche contro le donne: tutti i casi
Ilfattoquotidiano.it – Femminicidio e la cultura che subordina le donne agli uomini
I primi due giorni di febbraio sono stati scossi dall‘uccisione di Luana e Marinella e dall’aggressione feroce e brutale di Carla cosparsa di alcol e data alle fiamme dal suo compagno. Atti di ordinaria violenza maschile accaduti ad otto ore di distanza l’uno dall’altro.
[…] Una violenza che viene narrata e rimossa nello stesso tempo, quando diventa elemento di consumo nella cronaca nera, nei programmi morbosi dove il tema del femminicidio si consuma e si getta via con i peggiori stereotipi e le trite banalità.
Raptus, delitto passionale, amore non corrisposto accompagnano la giustificazione collettiva della violenza maschile che “capita” a qualche donna che ha osato compiere una sfida. Camminando per strada la notte, andando in discoteca, ubriacandosi, appagando la propria sessualità, tradendo, scegliendo di separarsi da un marito che era diventato insopportabile a causa delle violenze o semplicemente perché le aveva stancate […]
Nei prossimi mesi leggeremo ancora di uomini che uccidono o feriscono […]. E dopo i loro arresti, leggeremo ancora le meschine giustificazioni di stupri, botte e uccisioni e le loro difese costruite sulla diffamazione della vittima […].
Radiovaticana.va – Femminicidio, la lunga lotta per fermare la violenza sulle donne
[…] Una storia che ha scioccato, come spiega Maria Giovanna Ruo, avvocato, presidente di CamMiNo, Associazione autrice di una ricerca sulla violenza domestica e di genere. Francesca Sabatinelli l’ha intervistata:
Direi che è normale che siamo scioccati, direi proprio di sì, per il senso della perdita del linguaggio primario della cura, anche nei confronti di chi sta per nascere. Quello che io posso dire, da un osservatorio particolare, che è quello dell’avvocatura, è che la violenza nelle relazioni familiari e quella domestica è un fenomeno che potremmo definire presente, trasversale a ogni ambiente e ceto sociale, investe qualsiasi contesto, compresi quelli abbienti o “acculturati”, tra virgolette, perché poi chiaramente quando parliamo di episodi di violenza parliamo di una sottocultura.
Pourfemme.it – Femminicidio, le donne uccise nel 2016
[…] ci ritroviamo a parlare di femminicidio. Di tutte le donne uccise nel 2016, strano fare una statistica di un anno, quando questo è iniziato da appena due mesi, eppure si può.
Luana, Marinella e Carla, le conosciamo tutte, ne abbiamo sentito parlare negli ultimi giorni, le loro storie hanno scosso le nostre coscienze forzandoci a concentrarci ancora su una delle questioni più dibattute dello scorso anno, e di quello precedente, e dell’altro ancora e via discorrendo: la violenza domestica.
Enea.it – La dura realtà del femminicidio, espressione del potere diseguale tra donne e uomini
Il termine femminicidio non nasce per caso, né perché mediaticamente d’impatto. Tale termine, benché cacofonico, rappresenta la violenza perpetrata dagli uomini ai danni delle donne in quanto tali, ossia in quanto appartenenti al genere femminile. […] E nella maggior parte dei casi gli autori di questi delitti sono mariti, ex fidanzati e comunque persone appartenenti alla cerchia affettiva delle mura domestiche.
Siciliainformazioni.com – Carnevale choc a Blufi. Sfila carro hot: è polemica
di Giulio Giallombardo
[…] Per le strade del piccolo paese, tra musica e coriandoli, si è potuta ammirare una Betty Boop di cartapesta, in perizoma e reggiseno, piegata sulle ginocchia, che invitava i passanti a raggiungerla. Inutile dire che la posizione fa pensare a tutt’altro che ad una allegoria […]
Aver progettato e realizzato un carro del genere costituisce l’ennesima offesa al corpo femminile, che ormai ha assunto sempre più lo status di merce di scambio. Il tutto con l’aggravante di averlo fatto sfilare nel paese dove pochi mesi fa si è consumato l’ennesimo “femminicidio” (parola orribile, ma efficace) ai danni della farmacista Giuseppina Jacona, sgozzata durante una rapina. […]
Comunicazionedigenere.wordpress.com – Cosa è femminicidio e cosa non è femminicidio
Qualche giorno fa ci arriva la segnalazione di un carro allegorico di carnevale ritraente una Betty Boop in mutande.
[…] come scritto in questo articolo che racconta della vicenda, leggendolo però qualcosa ci colpisce di più del carro allegorico incriminato ed è l’uso inappropriato del termine femminicidio.
[…] Il giornalista riporta le dichiarazioni dell’avvocata che definisce femminicidio l’uccisione di una donna durante una rapina. “Parola orribile ma efficace”. Sarebbe forse meno orribile e più efficace se usata correttamente. La farmacista Giuseppina Jacona è stata uccisa da due uomini perché si trovava nell’esercizio che questi avevano deciso di rapinare. Non si tratta di femminicidio.
Benché pochi, gli esempi citati fungono bene da frammenti di un macrotesto soggiacente che continua a offrirsi sempre uguale a se stesso e a offrire a chi ne fruisce gli stessi errori, nel senso etimologico dell’allontanamento rispetto a una via della quale non si dovrebbe dubitare e dalla quale non ci si sarebbe dovuti allontanare perché chiaramente segnata dal primato lessicologico, conseguenza e insieme causa di un primato anche lessicografico (il dizionario materiale che rappresenta lo spazio dei segni condiviso dai parlanti e insieme lo spazio mentale che trova nel dizionario materiale un punto di riferimento fermo).
Non essendo questo avvenuto tanto a causa della poca vicinanza all’uso medio di contenuti e linguaggi di un ambito specialistico quale quello sociologico, tanto, e forse ancor di più, a causa della tendenza analogizzante del parlante, nel caso specifico indotta e resa ovvia da ragioni di morfologia oltre che di semantica (la serie in -cidio), la sorte semantica di femminicidio non è riuscita a sfuggire a nessuno dei due possibili esiti opposti a cui sarebbe potuta andare incontro.
Femminicidio ha così finito per subire
- gli effetti della generalizzazione imputabile alla scarsa comprensione e importanza attribuita al riferimento originario al genere, che ne hanno fatto una violenza contro la donna di natura e entità variabile e che arriva a comprenderne l’uccisione. Non si esclude in via teorica, benché non vi siano attestazioni in questo senso, che ad uccidere una donna possa essere non un uomo ma un soggetto, anche donna, mosso da odio di genere;
- gli effetti della generalizzazione imputabile alla scarsa comprensione e importanza attribuita al riferimento originario al genere e insieme a una polarizzazione moderata, che ne hanno fatto “solo” un omicidio di donna, anche per mano di un soggetto-uomo sconosciuto;
- gli effetti della generalizzazione imputabile alla scarsa comprensione e importanza attribuita al riferimento originario al genere e insieme a una polarizzazione forte, che ne hanno fatto un omicidio di donna perpetrato da un uomo a lei noto o familiare;
- gli effetti della generalizzazione imputabile alla scarsa comprensione e importanza attribuita al riferimento originario al genere e insieme a una polarizzazione fortissima, che ne hanno fatto un omicidio di donna perpetrato dal coniuge-compagno-fidanzato presente o passato.
A differenza di altri casi, in questo l’estensione semantica – e conseguentemente il riferimento – variabile del segno è da giudicarsi sciagurata e che lo sia per il disorientamento che può ingenerare in quei parlanti ancora alle prese con il processo di acclimatamento di femminicidio costituisce solo il male minore.
Le “vere” conseguenze dell’assenza di stabilità semantica e quindi lessicografica del termine si misurano infatti, per dirla con un gioco di parole, quando si deve misurare la situazione di un Paese attraverso la statistica, che, nel caso dei femminicidi, propone delle serie di numeri ondivaghe.
La coesistenza di definizioni diverse, che si traduce in una definizione di massima di femminicidio a dir poco lasca anche nei suoi aspetti più strettamente denotativi, comporta infatti, già in fase di raccolta dei dati, dei problemi tutt’altro che trascurabili, giacché a seconda della definizione adottata dall’analista può determinare tanto l’inclusione quanto l’esclusione di un medesimo tipo di fatti.
Se a questo si aggiunge l’assenza di una fonte univoca di reperimento dei dati relativi ai crimini e la prassi conseguente a colmare questa assenza ricorrendo alla rilevazione dei dati per mezzo di indagini e vittimologiche e sulla violenza domestica e dedicate alla violenza contro le donne, ci si può facilmente rendere conto dei motivi per i quali la realtà sociale rappresentata dalla stampa appaia tanto sfilacciata e dilatata.
A questo stesso proposito scriveva la statistica sociale Domenica Fioredistella Iezzi già nel 2013
In Italy, there are no official data on femicide. Since 1923, Istat has carried out a survey on the “causes of death” (i.e., the main source for the evaluation of the health status of the population and for the allocation of health programs and resources). Unfortunately, this survey has not recorded data on the authors of homicide. Since 1995, EURES has collected data on murders in Italy and integrated this information with DEA DB (database of the National Agency of Press–ANSA) and data from the Criminalpol. The EURES DB does not use a gender approach, but it is possible to obtain this information through crossing some variables in the EURES DB (Iezzi 2010). Since 2005, refuges have collected data on femicide in Italy, using only press information.
Judicial statistics come mainly from administrative files, so periodical reports on gender crimes, although not in the same year, can be obtained. In 2010, 105.000 gender crimes have been reported to the police: 290 per day – that is one crime every 12 seconds. Each day, 95 women reported suffering from threats; 87, abuses; 64, willful lesions; 19, beating; 14, stalking; and 10, sexual violence (Istat, 2012). When considering intimate partner violence, it is often asked why men use physical force against women with whom they live (Dobash et al. 2007). Domestic violence is very frequent, and intimate partner femicide is the single largest category of femicide, with women often killed by their husbands, partners, ex-husbands, or ex-lovers. Generally, it is tip of the iceberg of domestic mistreatments perpetrated over time (Iezzi 2013: 52-53).
Oggi, dati della rilevazione ISTAT 2013 alla mano, la situazione appare ancora simile a quella descritta da Iezzi: i dati relativi alla relazione vittima di omicidio e autore sono estratti dal database degli omicidi del Ministero dell’Interno (DCPC) e il fatto che il calcolo sia fornito sia includendo le 92 vittime del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, sia escludendole, lascia intendere che vigono ancora gli esiti di un imperfetto spoglio dei femminicidi imputabile, a giudizio di chi scrive, agli effetti della tuttora vigente provvisorietà definitoria di questa tipologia di crimine. Poiché, inoltre, in Italia, i dati ufficiali sulla mortalità non includono sistematicamente la natura della relazione tra omicida e vittima e la rilevazione dei dati è praticata con metodi differenti, il rapporto a tre società – società rappresentata dai media – società rappresentata nel e dal repertorio linguistico della comunità italiana risulta non sono falsato ma neppure confrontabile con quello disponibile per altri paesi.
In Italy, as in other countries, official mortality data do not record the relationship between the victim and the perpetrator. In Italy, there are women’s shelters that provide temporary refuge for women escaping from violent or abusive situations, such as rape and domestic violence, and these shelters also collect data on femicide. Actually, data on this topic come from the web should be collected to gather new information and build a specific vocabulary, but unstructured data require more complex preprocessing to transform unstructured data into structured statistical information. Moreover, data could be encoded in many different ways that may result in significantly different outcomes (Iezzi 2013: 52-63).
Per far sì che ciò non accada, occorrerà pertanto muovere finalmente ad una strutturazione lessicale del femminicidio (sarebbe invece inappropriato parlare di ristrutturazione, giacché si implicherebbe una strutturazione preesistente sulla cui assenza si sta invece fondando l’argomentazione che regge la presente proposta) da ratificare attraverso gli usi di massa. Usi mediati e ratificati dalla lingua e dai linguaggi dei media che dovrebbero fungere non da specchio deformante bensì da fonte autorevole anche di giustezza linguistica.
Quanto all’azione deformante, è giudizio di Luisa Betto, giornalista che in varie occasioni si è espressa sulle questioni anche definitorie relative al femminicidio, che debba essere ricondotta alla volontà del decisore politico, cosa che implicherebbe la trasformazione a quadrato del rapporto triangolare di rappresentazione sociale del fenomeno poc’anzi delineato. Scriveva Betto sul Manifesto del 27 aprile 2014 prendendo spunto da un comunicato di UDI – associazione di donne di promozione politica apartitica, sociale e culturale, senza fini di lucro (così i membri definiscono la propria associazione nella pagina ‘Chi siamo’ del sito http://www.udinazionale.org) – non più disponibile in rete
Mai si è parlato tanto di femminicidio, e mai tanto l’uso della parola si è ritorto contro le donne vittime o no. La cronaca come sempre rispecchia la cultura del paese, ma la posizione e il peso della realtà nella cronaca sono quelle stabilite dalla politica. Da una parte i fatti e la loro esistenza, dall’altra, semplificando, i titoli dei giornali e le tendenze governative. Nello spazio e nel tempo forse i fatti vincono, ma oggi dobbiamo dire che tra i fatti c’è la riduzione del femminicidio al vecchio e vituperato “uxoricidio”. È una suggestione profondamente voluta da una politica che non vuole occuparsi delle donne: vuole occuparsi della famiglia. Non in quanto a servizi e non in quanto alle famiglie quali sono realmente, ma in quanto al mantenimento delle condizioni che l’hanno resa il luogo più impermeabile al cambiamento, nei secoli. Parliamo di femminicidio, nell’accezione totale del termine (da http://www.udinazionale.org).
Il passaggio più interessante è però quello immediatamente successivo: qui la causa di questa dilatazione mistificatoria è addebitata senza giri di parole alla imperfetta – qui come altrove nel senso di non compiuta – definizione di cosa costituisca femminicidio.
A questo proposito […] sarà interessante capire come questa strumentalizzazione sia avvenuta, nel tentativo di riportare la parola femminicidio al suo significato originale che, almeno nel nostro Paese, è stato manipolato e falsamente distorto, soprattutto grazie all’impreparazione e ai pochi strumenti della stessa informazione che non si è mai preoccupata di andare a indagare l’origine della parola stessa, e quindi il suo corretto uso, proprio nel momento in cui la nominava. Malgrado infatti i numerosi tentativi di studiose, esperte, avvocate e anche giornaliste, nel riportare la parola al suo senso originale e proprio, la distorsione è stata così massiccia da sembrare quasi impossibile parlare davvero di femminicidio […].
Non è un caso se, dopo anni di uso e abuso del termine femminicidio, sia ancora ignorata non solo dalla vulgata ma dagli stessi professionisti dell’informazione che non conoscono l’esatto significato del termine e tantomeno il fatto che femmicidio non è la stessa cosa di femminicidio […]
Una differenza, quella tra femmicidio e femminicidio, importante e significativa: parole che molt* ancora usano in maniera equiparata, riducendo spesso tutte e due sempre e comunque all’uxoricidio. Un danno per le donne, che si trovano espropriate dei loro stessi strumenti, e una distorsione fatta con troppa leggerezza che può diventare anche un errore amplificato, come dimostra il dizionario Zanichelli che, pur nelle buone intenzioni, ha inserito nel dizionario il termine femminicidio, definendolo: “uccisione o violenza compiuta nei confronti di una donna, spec. quando il fatto di essere donna costituisce l’elemento scatenante dell’azione criminosa” –definizione riduttiva anche per il termine criminologico femmicidio coniato da Diana Russel, figuriamoci se applicato al termine sociologico di femminicidio di Marcela Lagarde – dimostrando così non solo di non aver capito il significato della parola stessa ma di dare un’informazione sbagliata attraverso uno strumento che dovrebbe essere autorevole e fidato, dato che si tratta di un dizionario della lingua italiana (e forse sarebbe il caso di farglielo sapere) (il manifesto.info del 27.11.2014).
Puntuale nella ricostruzione della rete semantica che insieme lega e separa femmicidio e femminicidio da uxoricidio, Betto chiama in causa il dizionario, citandone uno per tutti, per gli effetti – veri e propri danni – che produce alle donne con la sua approssimazione.
Pur condividendo – e come non farlo – le considerazioni della giornalista e pur con la consapevolezza di tradire, almeno in parte, con quanto si proporrà, la semantica originaria dei due conii (la traccia, visibile, della diversa formazione e dai diversi interessi delle due autrici non potrà che risultare appiattita), in questa sede si faranno prevalere sulla filologia della lingua ragioni di utilità sociale e per questa ragione si caldeggerà l’elezione di femminicidio a termine di riferimento per una realtà da individuare in modo convenzionale ma univoco.
Fatta colare nello stampo del significato del segno, la definizione finalmente perfetta di femminicidio assurgerà a riferimento, scevro di tratti connotativi, di un unico frammento di mondo, del mondo della violenza sulle donne.
Ai fini di questa operazione, cosa considerare allora saliente – e, conseguentemente, denotare – e a cosa rinunciare?
Tenendo a mente i vantaggi derivanti dal primato dell’uso, la presa d’atto di un addensamento di usi di femminicidio per l’omicidio di una donna porterà a escludere dalla sua definizione ogni altra forma di violenza. Il fatto che a compierla sia un uomo porterà poi a riferirsi esplicitamente al genere maschile, a denotarlo; che quest’uomo abbia una relazione con la vittima comporterà inoltre l’esclusione dai femminicidi di ogni omicidio di donna perpetrato da mano ignota o nota alla vittima in modo occasionale o superficiale. Non costituirà perciò un femminicidio l’omicidio di donna conseguente a un litigio per ragioni futili o non premeditate. La ricorrenza di uccisioni di donne per mano di uomini con cui sono in essere o si sono concluse relazioni di natura affettivo-sessuale porterà, infine, a concentrare intorno a questa condizione il nucleo denotativo del composto e ad escludere persino quelle uccisioni compiute da mariti ma per ragioni non legate alla natura primariamente affettivo-sessuale della relazione, come nel caso di donne anziane e/o disabili uccise dal coniuge per incapacità di affrontarne la patologia in assenza di adeguato supporto da parte delle istituzioni o per mancanza di disponibilità economiche.
Fig. 1 Qualche numero. La violenza fisica e sessuale subita dalle donne nel corso della vita
Fonte: L.L. Sabbadini, La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia, ISTAT 2015 – Seconda slide della presentazione disponibile all’indirizzo http://www.istat.it/it/files/2015/04/L.-L.-Sabbadini.pdf
Quanto a femmicidio, inevitabile il suo accantonamento e relegamento al ruolo di variante di femminicidio, forte di una giustezza etimologica del quale l’altro, che appare zoppo con il suo non consentire il rapido accesso al paradigma della femmina, è manchevole.
Una volta stabilizzato il nucleo semantico di femminicidio, la coazione al riuso, da parte, in special modo, degli operatori dell’informazione, cassa di risonanza spesso decisiva anche nell’imposizione dell’innovazione linguistica, faciliterà la disseminazione del lemma nel repertorio linguistico, permeandone via via tutte le varietà.
Forma e sostanza ‘corrette’ [quelle della forgia originaria] di femmicidio e di femmicidio ci si potrà auspicare di rinvenirle nei domini ristretti del repertorio, per lo più nell’ambito delle scienze sociali, accompagnati da riferimenti e rinvii specialistici. Trame concettuali e linguistiche che però difficilmente riescono a permeare le varietà dell’italiano della comunicazione che ogni giorno sostanziano e danno forma ai testi che invece costituiscono la fonte principale, in molti casi la sola, di approvvigionamento di informazioni su questo fenomeno.
Inutile esecrare questo fatto o contrastarlo, meglio farci i conti e fare in modo che attraverso e grazie a quelle varietà di lingua si possa contribuire a stabilizzare la conoscenza di un fenomeno del quale occorre parlare in modo corretto, se si vuole contribuire a prevenirlo o contrastarlo.
Fig. 2 Qualche numero. La violenza fisica e sessuale subita dalle donne da parte del partner attuale o ex
Fonte: L.L. Sabbadini, La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia, ISTAT 2015 – Quarta slide della presentazione disponibile all’indirizzo <http://www.istat.it/it/files/2015/04/L.-L.-Sabbadini.pdf>
Così facendo si potrebbe, inoltre, tentare di sfruttare quei medesimi effetti di priming semantico che ad alcuni studiosi del fenomeno fanno ritenere che l’esposizione a notizie di femminicidi aumenti considerevolmente il rischio che ne siano compiuti nel lasso dei dieci giorni successivi.
El ‘efecto imitación’ y su influencia en los asesinatos de mujeres.
Una tesis doctoral concluye que la probabilidad de que se cometa un feminicidio es 24 veces mayor si en los 10 días previos ha aparecido una noticia similar en los medios.
Questo è quanto titola e commenta in occhiello un articolo apparso di recente sul quotidiano spagnolo La Vanguardia a seguito della diffusione dei risultati di una tesi di dottorato incentrata sullo studio dell’effetto imitazione
A veces actuamos por mimetismo. Adoptamos actitudes que, consciente o inconscientemente, hemos visto en los demás. Esto no tiene mayor problema si lo que hacemos no afecta a terceros. Pero, claro, esta posible tendencia adquiere otro cariz cuando lo que copiamos son actitudes violentas. En este sentido, una tesis doctoral concluye que la probabilidad de que se cometa un feminicidio aumenta 24 veces si en los 10 días anteriores han aparecido en los medios de comunicación noticias de asesinatos de mujeres a manos de sus parejas o ex parejas. Es lo que se denomina copycat o efecto imitación (Lavanguardia.com del 28 marzo 2016).
Destinata a suscitare molte discussioni per l’impianto metodologico adottato, la tesi della giurista Isabel Marzabal, riportata in forma estremamente sintetica ma corredata da un’intervista a commento dal quotidiano spagnolo, è fondata sull’osservazione e lo spoglio di tutto quanto pubblicato intorno alle 30 uccisioni di donne avvenute dal 2004 al 2009 e sullo studio delle relative sentenze emesse tra 2006 e 2011 e propone di individuare come filo conduttore della catena di omicidi la ricorrenza di crimini dello stesso genere nella cronaca dei giorni precedenti i delitti. Il fatto che questa circostanza si sia verificata in 28 casi su 30, unitamente alle somiglianze in fatto di scene del delitto (in genere la residenza coniugale) e di “identikit” degli uccisori (nessuno sofferente di patologie mentali, nessuno provvisto di un livello di cultura basso, tutti potenzialmente portati a riconoscersi nell’omicida per analogia di situazioni: separazione in corso o avvenuta dalla donna uccisa, nuova relazione di costei, etc.) oltre che di stato di tensione in essere costituirebbe a giudizio di Marzabal una ragione sufficiente a invocare l’effetto replica per gli omicidi a seguire, alleggeriti nella percezione di chi li ha commessi proprio dalle tante somiglianze con quelli conosciuti attraverso la narrazione della cronaca.
Non è del resto la prima volta che la cronaca e la descrizione che in essa si pratica degli atti violenti viene imputata di induzione, più o meno involontaria,[4] alla replica di suicidi o atti violenti, per lo più omicidi, ai quali, proprio per i tratti caratteristici difficilmente separabili da quelli propri dei crimini ai quali gli autori sono stati esposti mediaticamente, ci si riferisce come a suicidi o a omicidi a grappolo, o contagiosi o fotocopia.
In attesa che le discipline che si occupano di studiare questi fenomeni chiariscano quanto l’esposizione alle narrazioni e ai loro linguaggi possano determinare un imprinting negli individui che ne sono fruitori – giungendo magari anche a definire quali categorie di individui possano risultare più sensibili a questo genere di stimoli al di là delle contingenze, che pure hanno un ruolo nel processo di replica, giacché “naturalizzano” in chi si sta per apprestare al crimine l’inclinazione alla svolta criminale perché condivisa da altri individui –, qui si guarderà alla replica da un altro punto di vista, volto a individuare i possibili effetti del priming semantico.
Proposto per tentare di spiegare le modalità di azione della memoria selettiva nella gestione delle informazioni che giungono ai nostri organi di senso, priming[5] prende il nome da prime lo stimolo trasmesso a un soggetto che subito dopo viene esposto a un secondo stimolo che richiede una rapida risposta.
Quando il secondo stimolo è semanticamente connesso al primo, il tempo di reazione nel soggetto a esso esposto risulta nettamente inferiore a quello che si verifica nel caso di un secondo stimolo semanticamente distante, cosa che nella mente del parlante si traduce nella creazione di costellazioni di termini e di eventi extra-linguistici a essi associati.
A conclusione di questa riflessione e a sostegno della proposta, qui caldeggiata, di lavorare sulla de-finizione di femminicidio anche e soprattutto per una necessità di tipo sociale, ci si interrogherà sul rapporto tra priming semantico e morfologia del termine. Non senza aver recuperato un ultimo tassello, dalla storia linguistica italiana recente.
Vent’anni fa, in occasione della prima ondata di scandali riguardanti l’allegra gestione del patrimonio pubblico da parte della classe politica italiana, tradottasi in una catena pressoché interminabile di casi di corruzione e concussione, la risposta della comunità parlante fu il composto tangentopoli, da un sostantivo tangente fino a quel momento noto a pochi – si trattava di un termine antico o raro o comunque di nicchia – e da un formante –poli del tutto privo della referenza etimologica originaria (‘città di’) e che, decontestualizzato, è assurto a referente linguistico per antonomasia degli scandali.
Decisivo per la definizione della nuova semantica di –poli il linguaggio giornalistico, vorace di termini icastici, meglio ancora se in grado di coniugare brevità e forte potere immaginifico.
GRADIT s.v. –poli […] confisso [dal gr. -polis , cfr. polis] città, relativo alla città: baraccopoli, metropoli, tendopoli | estens., nel linguaggio giornalistico, indica intrico corruttivo in un settore: tangentopoli
“Fatto” –poli dalla madre di tutti gli scandali, per l’appunto tangentopoli, la lingua italiana ebbe a portata di mano la matrice per la lingua di ogni futuro scandalo o mal costume trattato dalla cronaca alla stregua di uno scandalo: una lingua forte di una ricca costellazione di termini, che nel composto neoclassico in –poli individuava anche una proposta alternativa al modello anglofono dei composti con –gate.
Mutatis mutandis, chissà se anche nel caso di femminicidio il forte impatto mediatico non possa essere stato responsabile dell’incentramento della semantica del termine in corrispondenza delle rappresentazioni collettive, e perciò condivise, degli omicidi di donna più efferati perché compiuti dalla mano (di colui con cui si è diviso un pezzo di vita) e nel luogo (il luogo cui si è diviso quel pezzo di vita) meno attesi, anche a dispetto di un impiego in prima istanza più rispettoso della matrice originaria della parola.
Responsabile tanto della sua circolazione al di fuori degli strati di parlanti più “impegnati” e “impegnate”, tanto della sua deformazione a rischio di parossismo, la lingua della cronaca nella prossima fase potrebbe allora farsi portatrice di una istanza imperfetta ma finalmente in grado di fissare un frammento non bello di mondo per fare i conti con il quale è necessario iniziare a dotarsi di un termine da avere innanzi agli occhi e nelle orecchie.
Note
[1] Sulle tracce consapevoli o meno che il lessicografo dissemina nella propria opera, si confrontino i lavori recenti di Fabiana Fusco, utili anche come repertorio bibliografico sull’argomento (Fusco 2012).
[2] «Il concetto di femmicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine» (Radford – Russell 1992).
[3] La serie, non sistematica, è stata messa insieme ampliando i risultati ottenuti dal GRADIT con la consultazione di Treccani.it e di altre fonti. Sulle questioni etimologiche e morfologiche di femminicidio si è già trattato in Dragotto 2015.
[4] Non mancano, infatti, i sostenitori dell’esistenza di una volontà politica di spostare l’attenzione del grande pubblico, magari dal dibattito intorno a riforme sociali, ricorrendo all’enfatizzazione della cronaca di eventi criminosi di particolare impatto emotivo.
[5] Il priming semantico si riconduce alla teoria del filtro attenuato, che non è però l’unica spiegazione a essere invocata per spiegare lo scarto tra ciò che arriva alle terminazioni sensoriali e quanto arriva alla memoria, tutte riconducibili grosso modo a due grossi blocchi: quello della selezione precoce dell’informazione e quello della selezione tardiva, comprendente anche la sotto-ipotesi del filtro attenuato.
Bibliografia
Dragotto, F., “Vecchi omicidi (di donne), nuovi femminicidi. Nomina sunt consequentia rerum?” in Grammatica e sessismo 2. Lavori del seminario interdisciplinare (2014-2015), Roma, Universitalia, 2015, pp. 11-33
Fusco, F., La lingua e il femminile nella lessicografia italiana. Tra stereotipo e (in)visibilità, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2012
Iezzi, D.F., “Italian women in the new millennium: emancipated or violated? An analysis of webmining on fatal domestic violence”, in Rivista Italiana di Economia Demografia e Statistica, Volume LXVII n. 2 Aprile-Giugno 2013, 2013, pp. 47-65
Radford, J. – Russell, D. E.H., Femicide: The Politics of woman killing, Twayne Publishers, New York, 1992