GRAMMATICA E SESSISMO

CENTRO DI RICERCA DIPARTIMENTALE MULTIDISCIPLINARE

Ponti di sconoscenza. Una riflessione sul ruolo dei linguaggi delle narrazioni (e delle competenze) nello spazio sociale e comunicativo contemporaneo

Per prassi linguistica associati all’amore, tanto quanto l’odio ai muri, i ponti costituiscono una immagine ricorrente nella comunicazione contemporanea, di vario ambito.

Esito di una radice indoeuropea connessa con l’idea di sentiero, il ponte ha goduto di una sorta di ennesima risemantizzazione da quando si è fatto icona utile a “tradurre”, in riferimento alla nostra specie, il ruolo della corteccia cerebrale, organo di civilizzazione (Vygotskij) in grado di fornire soluzioni a ogni nuova esigenza posta dalla storia. Proprio in quanto ponte, la corteccia contribuisce, tra le altre cose, con varie sue parti e in sinergia con altre parti del cervello, a rendere la narrazione altrui esperienza personale.

Che della realtà si abbia una esperienza diretta e fattiva oppure mediata dalla narrazione, dal punto di vista dell’esito del processo – la conoscenza e il suo collocamento in uno spazio mentale in cui è necessario che viga il principio di coerenza – non cambia poi molto: in entrambi i casi il cervello struttura l’esperienza in unità (blocchi significativi per l’individuo) che possono essere comprese e richiamate. Opera, altresì, in una modalità discreta, alternativa e complementare a quella che caratterizza invece la realtà, per definizione continua

humans implicitly generate event boundaries when consecutive stimuli have distinct temporal associations […], when the causal structure of the environment changes […], or when our goals change […] (BALDASSANO ET AL. 2017)

A riprova del rapporto osmotico e inseparabile tra realtà esterna e realtà rappresentata (interna), va poi segnalato che le aree cerebrali attivate durante la rievocazione dell’esperienza non solo sembrano essere le stesse attivatesi durante la percezione, ma che l’ordine stesso della loro attivazione sembra mantenersi invariato, così da riproporre il medesimo schema di attività.

E poiché la rievocazione dell’esperienza, pur potendo assumere forme diverse (quelle dei diversi linguaggi coinvolti nella rievocazione, non necessariamente solo verbali), finisce prevalentemente, in vista della comunicazione, con l’assumere forma e sostanza narrativa, evidente risulta l’inscindibilità dell’esperienza stessa dalla lingua e dalla sua impalcatura, fatta di una discretezza solo in potenza universale, giacché ciascuna lingua predispone a isolare in modo diverso i confini (boundaries) tra eventi e tra momenti di uno stesso evento. In modo, altresì, conforme alle prassi proprie della porzione di società a cui l’individuo appartiene, giacché se è vero che, in assenza di patologie o gravi limitazioni (quali la crescita in condizione di isolamento prolungato), ciascun esemplare della nostra specie è condotto dalla propria esperienza sociale a impiegare una lingua, è altrettanto vero che ciascuna lingua rende scontato, per il gruppo sociale che la impiega, un set di caratteristiche, regole e porzioni semantiche specifico ed entro certi limiti irripetibile (DEUTSCHER 2010). Per questa ragione, di quelle prassi, o culture – le abitudini di chi ha usato quella certa varietà di lingua prima di noi, alla base della realizzazione di una tra le innumerevoli nuance che fanno da contrappeso al monocromatico e solo potenziale linguaggio verbale – restano tracce ineliminabili, in particolare nella semantica, visto il ruolo di trigger esercitato dalle narrazioni, al pari delle pratiche extra-linguistiche, sulla costruzione dei nuclei di significato in fase acquisizionale.

Tra i diversi linguaggi che nella narrazione entrano in gioco, quello verbale detiene inoltre un ruolo di primazia, poiché in esso natura, cultura e società si fondono in unicum identitario. Un unicum in grado di de-finire i contenuti e insieme i limiti dell’enciclopedia mentale della persona, vista la difficoltà (impossibilità?) di mantenere la conoscenza e la sua organizzazione mentale autonoma rispetto ai codici in dotazione all’individuo, che di essi si serve per rielaborare e simbolizzare, rievocare ed eventualmente comunicare quanto esperito/acquisito/appreso.

Stante il ruolo di trigger esercitato dalle narrazioni nell’acquisizione della lingua, è allora la stessa cornice cognitiva (brainframe) di ciascun individuo a non poter non risentire delle specifiche forme ed assetti proprie tanto della lingua, tanto della realtà da essa simbolizzata.

Per dirla, altrimenti, con Roman Jakobson, potendo tutto, ma non essendo costretta a nulla, la lingua – ciascuna lingua se non addirittura ciascuna varietà – si frappone a mo’ di filtro discreto ma onnipresente tra il mondo e la sua rappresentazione e, così facendo, restituisce alla realtà (ecosistema complesso, nel quale i paesaggi biologico e antropico-sociale si fondono) la stessa sostanza che essa le ha fornito. E lo fa dopo averle – cosa non da poco – attribuito significazione, grazie proprio al tramite della narrazione, il cui valore semantico originario sarebbe, non a caso, da ricondurre alla radice stessa della conoscenza, gn-. Una corradicalità, quella di conoscenza e narrazione, che, conseguentemente, conferirebbe al deverbale logonimico[1] narrazione (< narror < *(g)nar(u)ro cfr. DELL, s.v.) il significato di ‘far conoscere attraverso l’azione di raccontare’, costituendo il suffisso l’esito di un corradicale di agere e di actio.

Attraverso la narrazione l’uomo conferisce senso e significato al proprio esperire e delinea coordinate interpretative e prefigurative di eventi, azioni, situazioni e su queste basi costruisce forme di conoscenza che lo orientano nel suo agire. In effetti, le esperienze umane non rielaborate attraverso il pensiero narrativo non producono conoscenza funzionale al vivere in un contesto socio-culturale ma rimangono, invece, accadimenti ed eventi opachi, assolutamente non comprensibili all’interno di un universo di discorso e di senso in quanto non sono interpretabili in riferimento agli stati intenzionali dei loro protagonisti, né tanto meno sono collocabili all’interno di un continuum che le renda parte viva e vitale di una storia (personale o collettiva che sia); restano quindi accadimenti ed eventi senza relazioni, privi di senso e di qualsivoglia significato sul piano culturale, personale, sociale e, di conseguenza, sono ineluttabilmente destinate all’oblio. Attraverso il “pensiero narrativo” l’uomo realizza invece una complessa tessitura di accadimenti ed eventi utilizzando trame e orditi paralleli e complementari, mettendo in relazione esperienze, situazioni presenti, passate e future in forma di “racconto”, che le attualizza e le rende oggetto di possibili ipotesi interpretative e ricostruttive. La narrazione ha quindi una funzione epistemica: quella di innescare processi di: elaborazione, interpretazione, comprensione, rievocazione di esperienze, accadimenti, fatti; dando a essi una forma che renda possibile:

a) descriverli e raccontarli ad altri;

b) tentare di spiegarli alla luce delle circostanze, delle intenzioni, delle aspettative di chi ne è protagonista;

c) conferire loro senso e significato, collocandoli nel contesto di copioni, routine, repertori socio-culturalmente codificati (STRIANO 2008:17-18).

Per il linguaggio si verrebbe così a configurare il ruolo di «[…] mezzo umano attraverso il quale rappresentiamo e interpretiamo in modo definitivo il mondo» (BRUNER 1997:169) e per le parole quello di “the stuff of knowledge and also of tales”: un ruolo di primazia, questo, difficile da individuare, con analoga portata, in altre esperienze umane, senza con ciò affermare l’impossibilità di un pensiero senza linguaggio, argomento sul quale non si prende posizione e si rinvia alla letteratura specialistica.[2]

Produttore e consumatore (prosumer, prendendo in prestito un termine del marketing contemporaneo) di linguaggi, esperiti di norma sincreticamente benché per ragioni differenti, contestuali e/o individuali, un tipo possa apparire prevalente sugli altri, l’“uomo di parole” (Hagege) di essi si serve per costruire significati e per sostanziare il proprio talento narrativo, caratteristica che «contraddistingue il genere umano tanto quanto la posizione eretta o il pollice opponibile» (BRUNER 2002:97).

Di recente, poi, ovvero quando, nel corso degli ultimi millenni, la scrittura ha guadagnato uno spazio crescente e sempre più rilevante tra le prassi dei gruppi sociali e, di necessità, a monte, nel cervello, dove questo talento è giunto a progressivamente perfezionare circuiti e funzioni specifiche per l’esercizio di questa competenza, il ruolo del linguaggio verbale nell’organizzazione del pensiero e della conoscenza si è ancor più consolidato, al punto da far ipotizzare, stando ad alcune recenti evidenze restituite dal trattamento dell’afasia, una sua pervasività in tutto l’organismo (cfr. MARANGOLO, FIORI, SHOFANY, GILI, CALTAGIRONE, CUCUZZA, PRIORI 2017).

Il peso che la scrittura, insieme all’altra abilità secondaria sua complementare, la lettura, hanno esercitato su Homo nella fase più recente dell’evoluzione si sarebbe inoltre amplificato con l’introduzione di questi apprendimenti nella prima età evolutiva (nelle fasi a cavallo di prima infanzia e fanciullezza).

Dal momento che la capacità di leggere e scrivere si acquisisce di solito negli anni della crescita, e dal momento che essa influisce sull’organizzazione del linguaggio – il nostro sistema di elaborazione dell’informazione più integrale – ci sono buone ragioni per sospettare che l’alfabeto influisca anche sull’organizzazione del nostro pensiero. Il linguaggio è il software che dirige l’organismo umano. Qualunque tecnologia che eserciti un flusso significativo sul linguaggio influirà necessariamente anche sul comportamento sul piano fisiologico, emotivo e mentale. L’alfabeto è come il programma di un computer, ma molto più potente, più preciso, più versatile e più globale di qualunque altro programma mai scritto. Un programma progettato per far funzionare lo strumento più potente che esista: l’uomo stesso. […] L’alfabeto ha creato due rivoluzioni complementari, una nel cervello, l’altra nel mondo[3] (BETTINELLI 2013:183).

Spostando, con un salto, il focus sulla società contemporanea, che esiti prefigurarsi per quelle società nelle quali, senza precedenti che si possano avvicinare per quantità di scrittura prodotta e capacità di pervadere l’intera stratificazione sociale, si è affermata, per di più in un tempo infinitesimale se si prendono a paragone le fasi di irradiazione di altre rivoluzioni tecnologiche, la pratica dei social media e, con essa, si è amplificato il raggio di azione e di influenza delle narrazioni? Che tipo di impatto l’azione di dire/far conoscere mediata da dispositivi che somigliano sempre più a propaggini della mano per forma e posizione e ai modi in cui gli stimoli vengono “ponderati” dal cervello per caratteristiche delle narrazioni irradiate (di norma sincretiche dal punto di vista dei linguaggi) può, giorno dopo giorno, esercitare una spinta sul “dentro” della persona e contribuire a una ri-de-finizione della sua enciclopedia? E quanta possibilità c’è che questo spostamento (che rievoca, mutatis mutandis, la deriva di sapir-whorfiana memoria) possa andare in direzione di quanto auspicato di chi anima il circuito comunicativo da una posizione di dominanza assicurata dall’occupazione degli spazi sociali e social?

Seppur con la consapevolezza di banalizzare la complessità testuale, per sua natura sfuggente alle classificazioni che funzionano tanto bene sulla carta, dove a un estremo trova posto la scrittura istituzionale, che mantiene (o ci si aspetta che mantenga) la propria natura controllata anche quando destinata all’espressione digitale attraverso un mezzo di per sé di consumo istantaneo, quali sono i social media, e, all’altro, il guizzo del meme, si metterà da parte ogni considerazione circa le differenze riconducibili ai singoli tipi testuali così come la questione, tutta interna alla lingua, della solitamente maggiore vicinanza alle varietà tipiche dell’oralità delle varianti scritte prescelte per la pratica comunicativa.

Ci si interrogherà per provare invece a valutare quanto le due rivoluzioni – nel cervello e nel mondo –  connesse alla pratica dell’alfabeto, e la seconda in particolare, possano essere condizionate dai contenuti espressi. E se sia verosimile immaginare che la società invisibile, eppure presentissima, de-finita dall’impiego degli stessi social media da parte di una comunità solo parzialmente sovrapponibile a quella fisica possa essere assimilata alla città di Troia assalita da un cavallo mai svuotato dai guerrieri.

Cavallo e insieme guerriero, la narrazione “social”, prodotto di una scrittura di rapida diffusione e fruibilità, alla cui forgia l’alfabeto concorre spartendosi con altri linguaggi gli spazi a disposizione e occupandone quantità correlate con l’intenzione comunicativa di chi ha confezionato il messaggio,[4] potrebbe assediare il mondo e insieme il cervello di chi trasferisce progressivamente sempre più la propria esistenza sociale nella rete?

E, ancora, cosa aspettarsi in conseguenza del fatto che, venuta non solo meno la linea di confine e di autonomia tra vecchi e nuovi media – con i vecchi sempre più indifesi nei confronti dei nuovi –, con il recente assottigliamento della separazione dei ruoli da parte dei personaggi pubblici, decisori politici in primis, le narrazioni incanalate e diffuse dai social (media) hanno assunto in maniera esponenziale la funzione di enciclopedia sociale: enciclopedia collettiva e perciò individuale i cui contenuti godono di un prestigio connesso con la loro sovrapponibilità al pensiero o ai pensieri mainstream, ai suoi frameworks e ai suoi stereotipi?

Una domanda, questa, fonte di preoccupazione, o che dovrebbe esserlo, a causa dell’enorme valore detenuto dalla conoscenza narrativa, complementare e perciò alternativa al pensiero logico-scientifico (Bruner).

Conoscenza aperta a possibilità interpretative e perciò in grado di stabilizzare oppure innovare lo state of mind di chi vi entra in contatto,

Narrative knowledge is an older form of knowledge that dates to the time when the brain was evolving its capacity for cultural communication. [… ]

Narrative knowledge can be defined as the knowledge arising in one person upon hearing another person narrate an experience. It depends on the ability of the human brain to (1) encode the experience with symbols, (2) reconstruct an experience from symbols and (3) learn from the reconstruction as if the person had the experience himself. A narration results in knowledge when it is received with an indicator of truth, such as coming from a reliable teacher or witness, or by resonating with other experiences of the listener (DOW 2006:3-4).

Quando però, come di recente, la “parola di scienziato”, emblema del pensiero logico-scientifico, subisce una riduzione a semplice opinione da parte di una platea crescente di persone, nell’esperienza contemporanea per lo più assidua utente della rete (DRAGOTTO, FERRAZZOLI 2015), il divario tra le due forme di pensiero si assottiglia fino a erodersi presso certi gruppi. Conseguentemente, il rischio dell’intercambiabilità di contenuto narrativo e dato scientifico si fa concreto, complice una idea distorta di accesso democratico al sapere favorita dalla diffusione del web che avalla ora implicitamente, ora brandendola a vessillo di libertà, la possibilità, per ciascun individuo, di attribuire auctoritas a qualsiasi contenuto comunicato in modo sufficientemente convincente.

In questa inedita situazione, pur apparendo la stessa dell’era tecnologica precedente, la parola patisce una ridefinizione della propria sostanza. E, per il ruolo che essa ha nei processi di conoscenza, è la conoscenza stessa a subire, nella propria essenza, una riorganizzazione infida perché illusoria del possesso di qualcosa che non c’è.

Ora che cosa sta accadendo alla parola o meglio cosa stiamo facendo della parola?

Da analitica e convergente, la parola telematica sembra essere l’esatto opposto: fugace, intuitiva, poco riflessiva. Fruire dello schermo abitua ad una lettura estensiva, non intensiva, ad inglobare piccoli pezzetti di informazione e a ricondurli nel proprio personale puzzle ipertestuale e cognitivo, ricreando una perseguita unità. Tuttavia un puzzle compone un’immagine, non è immagine.

Un libro, per quanto contenga indiscussi spunti ipertestuali, rimane una unità. La lettura sta cambiando e, come sottolinea Nicholas Carr, verso una sorta di frenesia temporale che ci ha sottratto la pazienza di soffermarsi a lungo su una struttura testuale, com’è quella del libro, lineare, complessa, semantica, spesso ripetitiva e ridondante. Internet ci rende stupidi? titola il saggio di Carr. È da augurarsi che non sia così. Sicuramente però è in grado di aumentare il nostro livello di ansia informativa e di condensare le nostre letture in un testo-canovaccio di cui non si scorge la fine e di cui, forse, si teme l’ingestibilità. I nostri bocconi di informazione sono là fuori a disposizione, tessere mobili e intercambiabili di un puzzle in continua definizione. Rimaniamo in attesa di un ulteriore brainframe che rivoluzioni i precedenti o che semplicemente ne sia il naturale e ovvio prosieguo (BETTINELLI 2013:184).

Condizione, quest’ultima, che a giudizio di chi scrive è da ritenersi di gran lunga più verosimile dell’altra ipotizzata, per ragioni connesse con l’economia cognitiva, che privilegia la comunicazione attesa (DRAGOTTO 2013) quale strumento di rinforzo di credenze, opinioni, stereotipi e ideologie già in essere. Quella forma di comunicazione che, in quanto “premasticata”, non fa porre domande e anzi rinforza, in chi la recepirà, convinzioni già in essere, complice un uso di lingua e altri linguaggi prescelti per il framework narrativo proposto volutamente allineato alle varietà del repertorio tipiche dell’uso medio o, quando ritenuto utile, di un basiletto. Inserendosi nel solco della cornice cognitiva di chi se ne ciba, la comunicazione attesa ne rinforza ulteriormente gli automatismi fino a sclerotizzarli e a rendere neppure concepibile alcuna interpretazione alternativa del dato. Finendo, col perdurare di una esposizione limitata ai soli tipi testuali descrittivo e narrativo, con il pregiudicare il pieno sviluppo e/o l’efficienza di quello argomentativo,[5] il terzo dei tipi testuali basici («a loro volta articolabili in generi a cui ascrivere di volta in volta i testi reali») da una prospettiva di classificazione dei testi di natura funzionale-comunicativa, che prevede, per ciascun tipo, l’associazione a una precisa matrice cognitiva.

L’ordine secondo il quale i tre tipi testuali “basici” (cioè descrittivo, narrativo e argomentativo) vengono in genere citati sembra corrispondere in qualche modo all’ordine “naturale” di sviluppo delle capacità cognitive che permettono la comprensione e/o la costituzione di tali tipi testuali. Infatti

(a) la capacità di percepire gli oggetti nella dimensione spaziale si forma probabilmente prestissimo nel bambino: è fondata sulle percezioni sensoriali immediate (visive soprattutto) che vengono elaborate e mandate in memoria, creando a poco a poco rappresentazioni mentali della configurazione fisica degli oggetti e dello spazio. Tali rappresentazioni, ormai depositate in memoria, vengono poi attivate ogni volta che, di fronte a oggetti dello stesso tipo, si tratta di riconoscerli sulla base delle esperienze precedenti. I frames, cioè le rappresentazioni statiche di singoli oggetti o situazioni tipiche, sono probabilmente i primi a formarsi nel processo di conoscenza che inizia non appena si entri a contatto con il mondo; ma i frames sono pronti a complicarsi immediatamente in schemata, cioè in quelle rappresentazioni mentali, ugualmente statiche, che includono anche le interrelazioni tra oggetti differenti inglobati entro un medesimo contesto spaziale;

b) la concettualizzazione del tempo e del suo svolgersi si forma probabilmente in un secondo tempo, ma è provato che anche bambini molto piccoli possiedono già una serie di scripts, cioè di rappresentazioni mentali contenenti la successione delle azioni tipiche o il modo tipico di svilupparsi in successione di eventi che fanno parte delle loro esperienze quotidiane e familiari. Gli scripts sono schemi cognitivi relativi a fatti colti nella loro dinamicità, e sono parenti stretti dei plans, schemi cognitivi un po’ più complessi che includono anche la cognizione degli scopi per i quali le azioni tipiche (già previste negli scripts) vengono effettuate;

c) quanto alle capacità cognitive che presiedono alla comprensione ed elaborazione di testi argomentativi, esse sono fondamentalmente di tipo logico-concettuale, più astratte in quanto basate sul ragionamento e sganciate da una semplice referenza a oggetti concreti o a fatti percepiti spazialmente e temporalmente. Come sappiamo anche intuitivamente, sono molto più complesse e si sviluppano pienamente per ultime) (LAVINIO 2000:129)

Nel prosieguo della sua esposizione, Lavinio stessa pone indirettamente l’attenzione sulla sclerotizzazione, nel momento in cui rimarca il fatto che

tali schemi guidano la conoscenza e sono meccanismi economici che ci permettono di elaborare le nostre esperienze con grande risparmio cognitivo; ma non sono dati una volta per tutte: si correggono, ampliandosi e ristrutturandosi continuamente, in rapporto alle nuove esperienze; e c’è un continuo movimento ed equilibrio tra processi top-down (dall’alto al basso) e bottom-up (dagli input esperenziali alla loro elaborazione cognitiva).

La rigenerazione di esperienze necessaria a che questi schemi possano correggersi, ampliarsi e ristrutturarsi, cozza però con i modi sentiendi e cogitandi propri di chi si muove, per lo più senza esserne consapevole, nel perimetro delle camere dell’eco (virtual chamber): spazi social che, esasperando la tendenza atavica a cercare il più possibile la relazione con i propri simili tipica degli individui alle prese con la società, segnano forma e sostanza dell’interazione comunicativa contemporanea, complice la fattura stessa delle reti social.

Chiuso in labirinti autorigenerantisi, senza o con scarsa attitudine e possibilità di confronto con ciò che è extra,[6] l’individuo contemporaneo rischia paradossalmente di trascorrere la propria esistenza in una condizione di perenne immersione in un brodo tutt’altro che primordiale di linguaggi e tipi testuali, senza che questa condizione abbia ricadute positive sulle sue capacità di orientarsi tra i testi. Complici la comune attivazione di plans da parte del tipo narrativo e di qualche forma di quello argomentativo, unitamente all’erosione dell’elemento argomentativo-problematico e al ricorso a forme di sintesi infografiche, eredi rivisitate dei sistemi di illustrazione propri dei testi scientifici un tempo estranee alle narrazioni,

il medesimo tema (il resoconto delle varie fasi di un esperimento scientifico) riceve un trattamento espositivo, pur mantenendo una certa parentela con il tipo narrativo anche per l’ordine sequenziale-temporale determinato dal referente (l’esperimento si è sviluppato necessariamente in un dato tempo reale) (LAVINIO 2000:130).

Questa “liquidità”, sommata al fatto che l’utente, specie quando si immagina consapevole, cerca informazioni e, nei casi più fortunati, fonti pensando di agire criticamente e magari con fondamento scientifico, quando invece, poiché lo fa attraverso i principali motori di ricerca, non si rende affatto conto di imbattersi in risultati che tendono ad avvalorare la sua stessa idea di partenza (ricostruibile attraverso le ricerche già effettuate e i siti già visitati[7]), ha condotto a quel corto circuito, dai costi incalcolabili, col termine di analfabetismo funzionale.

A questa patologia sociale la letteratura degli ultimi anni si riferisce non senza qualche distinguo o polemica, in particolare sulle percentuali di popolazione coinvolte. È del 1978, dell’Unesco,[8] la definizione della condizione di alfabetismo funzionale (essere funzionalmente alfabetizzati/e) che ha fatto da input per la creazione della polirematica, cui l’aggiunta del prefisso privativo ha conferito una accezione diversa da tutte le altre nelle quali si fa uso di analfabeta. Se, pertanto,

Una persona è funzionalmente alfabetizzata se può essere coinvolta in tutte quelle attività nelle quali l’alfabetizzazione è richiesta per il buon funzionamento del suo gruppo e della sua comunità e per permetterle di continuare a usare la lettura, la scrittura e la computazione per lo sviluppo proprio e della sua comunità[9]

una persona, per converso, è analfabeta funzionale quando, pur possedendo abilità di literacy e numeracy adeguate per un grado di scolarizzazione superiore, mostra di non possedere competenze connesse con quelle abilità da impiegare per orientarsi nella vita quotidiana, specie se si tratta di quella, complessa, delle società contemporanee e della varietà di testi che ne caratterizzano l’esistenza. Questa carenza, talvolta di proporzioni allarmanti e comunque sempre importanti e sempre trasversali alla società, comporta, tra altre cose, il proliferare della disinformazione, rischiosa per la vita sociale individuale e collettiva (per una trattazione a largo spettro ma non per questo banale si rinvia a QUATTROCIOCCHI, VICINI 2016).

Innanzi a questo stato di cose, complesso in modi difficilmente preconizzabili per società anche di soli pochi decenni anteriori, occorre attrezzarsi, e in tempi brevi, per fare in modo che l’illusione dell’alfabetizzazione di massa non finisca per oscurare la carenza di competenze testuali di massa, da rinvigorire e mantenere allenate grazie a una condizione di apprendimento permanente (lifelong learning). Quanto a questo, occorre mettere in sinergia le potenzialità che ambienti di apprendimento vecchi e nuovi offrono in quantità e forme inusitate, soprattutto per via della diffusione di strumenti, applicativi e contenuti digitali troppo spesso additati come colpevoli dell’analfabetismo funzionale, oltre che di quello di ritorno.

Soluzione semplicistica e a basso costo che risponde a un’esigenza primaria, quella dell’individuazione del rapporto causa-effetto e di una delle sue declinazioni – colpevole-vittima –, la colpevolizzazione in blocco di quanto rientra nell’etichetta “digitale”[10] andrebbe piuttosto sospesa in vista di una riflessione seria e il più possibile immune da pregiudizi, che oggi spesso intossicano il dibattito.

Difficile immaginare, per un ripensamento che per complessità andrà necessariamente calibrato per obiettivi a breve, medio e lungo termine, che il luogo sociale investito dagli esiti di questa riflessione possa non coincidere con la scuola, in primis dell’infanzia e primaria, scenario e palestra dell’insorgenza e dell’allenamento di quelle competenze troppe volte bollate come l’ennesima parola chiave del decisore politico di turno.

Segmento cronologico nel quale acquisizione e apprendimento formali, non formali e informali si spartiscono gli spazi disegnati dalla curiosità esplorativa individuale oltre che dai dettami delle istituzioni preposte all’educazione, il pezzo di vita compreso tra la fine del nido e l’inizio della scuola del secondo ciclo potrebbe, se ripensato alla luce di tutto quanto le neuroscienze cognitive e – tra i vari saperi che si possono ricomprendere in questo ambito multi, inter e transdisciplinare del sapere –, le scienze del linguaggio hanno descritto negli ultimi anni, potrebbe diventare il terreno della sfida per la conquista di una piena cittadinanza nella società della conoscenza contemporanea. Una società in cui molto più di quanto si possa pensare, anche in termini di economia reale, è legato ai testi e ai frammenti di enciclopedia di individui e gruppi che essi ci possono restituire.[11]  

Muovendosi entro gli ampi contesti e con l’ausilio delle molteplici metodologie messe a disposizione dalla didattica per competenze, il circuito della formazione scolastica non può che costituire il contesto di elezione di quel recupero e riconsiderazione dei testi, anche (soprattutto?) digitali, necessario per arginare la propagazione della sconoscenza.

Concretizzazione programmatica di quelle raccomandazioni già formulate all’epoca della Risoluzione del Parlamento di Lisbona del 2000, con le quali ai Paesi membri dell’Unione Europea era richiesto «di impostare le proprie politiche formative affinché i propri cittadini acquisissero non solo conoscenze ed abilità, ma anche competenze, sia all’interno dei percorsi scolastici che lungo tutto l’arco della loro vita», la didattica costruita intorno alle competenze chiave è definita e descritta nell’allegato alla Raccomandazione del parlamento europeo e del consiglio del 18 dicembre 2006 (2006/962/CE), di recente superata da una nuova Raccomandazione,[12] motivata nell’ambito della Relazione che la Commissione europea ha inviato al Consiglio in data 17 gennaio 2018.

In Italia, a neppure un anno dalla pubblicazione della prima Raccomandazione, il D.M. 139 di agosto 2007 (Regolamento recante norme in materia di adempimento dell’obbligo di istruzione) declinava, all’art. 1, i saperi e le competenze di base per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione individuando quattro assi culturali portanti, primo dei quali quello relativo ai linguaggi, da intendersi come relativi alla/e L1, alle L2/LS, ai linguaggi non verbali, proprio come auspicabile per quella fruizione consapevole dei testi prima preconizzata: «L’integrazione tra i diversi linguaggi costituisce strumento fondamentale per acquisire nuove conoscenze e per interpretare la realtà in modo autonomo»; in special modo quando supportata dalla competenza digitale, arricchisce le possibilità di accesso ai saperi, consente la realizzazione di percorsi individuali di apprendimento, la comunicazione interattiva e la personale espressione creativa.

Alla base della necessità di rivisitare le ragioni alla base di un dispositivo che, anche se con esiti differenti nei diversi paesi e contesti sociali, ha avuto un ruolo importante di argine e contrasto all’analfabetismo funzionale, sta la rapidità della sostituzione in atto delle professioni per come sono state finora conosciute con delle nuove, conseguenti alla diffusione e al radicamento di abilità digitali e tecnologiche. Professioni per le quali occorrerà ridisegnare la formazione delle nuove generazioni non solo per ciò che concerne le abilità necessarie per la realizzazione professionale, ma per capacità di adattamento a contesti stabilmente in mutamento (resilienza come norma e non come eccezione).

Le società e le economie europee stanno vivendo una fase di innovazioni digitali e tecnologiche, oltre a cambiamenti del mercato del lavoro e di carattere demografico. Molte delle professioni attuali non esistevano dieci anni fa; molte forme nuove di occupazione saranno create in futuro. Nel “Libro bianco sul futuro dell’Europa” (2017) la Commissione sottolinea che è probabile che la maggior parte dei bambini che iniziano oggi la scuola primaria eserciteranno domani professioni attualmente sconosciute e che per tenere il passo con tale cambiamento occorrerà investire massicciamente nelle competenze e ripensare i sistemi di istruzione e di apprendimento permanente.[13] […] Le nostre società ed economie dipendono in forte misura dalla presenza di persone altamente istruite e competenti. Abilità quali la creatività, il pensiero critico, lo spirito di iniziativa e la capacità di risoluzione di problemi svolgono un ruolo importante per gestire la complessità e i cambiamenti nella società attuale. […] uno spazio europeo dell’istruzione dovrebbe facilitare la cooperazione e la mobilità dei discenti, degli educatori e dei formatori e dei loro istituti, sulla base dell’interesse di tutti gli Stati membri a sfruttare a pieno le potenzialità rappresentate da istruzione e cultura quali forze propulsive per occupazione, giustizia sociale e cittadinanza attiva e mezzi per sperimentare l’identità europea in tutta la sua diversità. […] In forte contrasto con tali esortazioni, gli ultimi dati delle indagini PISA dell’OCSE mostrano che nell’Unione europea (UE) uno studente su cinque non ha sufficienti competenze in lettura, matematica e scienze. Desta preoccupazione il fatto che tra il 2012 e il 2015 la tendenza a risultati insoddisfacenti nell’UE sia complessivamente peggiorata. Nei paesi partecipanti all’indagine OCSE del 2012 sulle competenze degli adulti (PIAAC), una percentuale compresa tra il 4,9% e il 27,7% degli adulti padroneggia solo i livelli più bassi di alfabetizzazione e una quota compresa tra l’8,1% e il 31,7% ha competenze numeriche solo ai livelli più bassi. Inoltre il 44% della popolazione dell’UE possiede competenze digitali scarse, e il 19% nulle, sebbene il ritmo sostenuto dei cambiamenti tecnologici e digitali stia producendo effetti profondi sulle nostre economie e società.

La raccomandazione proposta […] intende sostenere l’attuazione del primo principio del pilastro europeo dei diritti sociali <scil. il quale> sottolinea “il diritto a un’istruzione, a una formazione e a un apprendimento permanente di qualità e inclusivi, al fine di mantenere e acquisire competenze che consentono [a tutti] di partecipare pienamente alla società e di gestire con successo le transizioni nel mercato del lavoro”, unitamente al diritto a ulteriore formazione e riqualificazione

(Raccomandazione del consiglio relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente del 17 gennaio 2018).

Indispensabile, perché questa partecipazione possa aver luogo e in modo non occasionale, l’esposizione a un apprendimento permanente alimentato da quella già citata interrelazione tra forme di apprendimento formale, non formale e informale purtroppo realizzatasi troppo poco dal 2006 a oggi; un apprendimento in grado di allenare, riplasmandole, le competenze dell’individuo, crocevia di processi ermeneutici necessitanti l’esercizio di abilità quali «la capacità di risoluzione di problemi, il pensiero critico, la capacità di cooperare, la creatività, il pensiero computazionale, l’autoregolamentazione […]» (ibidem).

Perché ciò possa progressivamente aver luogo, nelle palestre della formazione, circuito scolastico in primis, si dovrebbe perciò lavorare su forme e modi di apprendimento che tengano conto di una preventiva rinegoziazione della de-finizione della testualità, da intendersi (finalmente) come precondizione sistematica dell’esistenza del testo concepito come unità minima della cognizione; unità/frammento di un processo per sua natura circolare e continuo che ha luogo in un microcontesto che a sua volta procede da una con-testualità non separabile dalla società e dalle sue prassi che, nella costruzione della conoscenza individuale, si è fatto grammatica prima della stessa grammatica relativa alla lingua e che, per questa ragione, costituisce una competenza non secondaria e non separabile della persona.

Questo è quanto si intende caldeggiare con questa riflessione costruita ad anello, nella quale, a torto, il ruolo della lingua potrebbe apparire eccessivamente diluito; espressione di funzione simbolica che partecipa del sociale tanto quanto di ciò che vi è di più profondo nell’individuale, la lingua/le lingue, in special modo quella/e di primaria acquisizione, offrono infatti la migliore delle palestre possibili per il raggiungimento e l’allenamento della metacognizione, quell’attività trasversale ai processi di conoscenza senza la quale non ci sarà per Troia possibilità di sottrarsi a ripetuti ed esiziali assalti.   

Bibliografia

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[1] Logonimo è termine del metalinguaggio con cui si indica il vocabolario delle lingue riferito all’attività di parlare, articolata in tutte le sue componenti. Per una classificazione dei logonimi, che fanno riferimento più frequentemente all’attività di produzione che a quella di ricezione, si confrontino gli studi di SILVESTRI 2000 e 2004 (che però introduce il termine nel dibattito scientifico nel 1997) e di DE MAURO 2000, che citando proprio il costrutto silvestriano ne fornisce la definizione di «parola o termine indicante aspetti e parti di frasi e testi e della loro realizzazione e ricezione» (DE MAURO 2000:8).

[2] Da segnalare, a tal proposito, il punto di vista sostenuto nell’ambito della neurologia, per es. da LAPLANE 2011, che ritiene l’indipendenza del pensiero non solo da darsi per assunta, bensì un vantaggio di cui avere contezza per esempio nella riabilitazione dell’afasia.

[3] Cfr. de KERCKHOVE 1993:38-9.

[4] Nell’approccio qui adottato il messaggio è da tener separato dal testo, giacché questo, unità minima di cognizione, si concretizza quando il messaggio è sottoposto al processo interpretativo di chi lo deconfeziona alla luce delle proprie preconoscenze, del contesto e del sistema di inferenze che si attiva.

[5] «Il tipo testuale argomentativo è correlato al macroatto dell’argomentare per dimostrare o sostenere (con lo scopo di convincere l’interlocutore) la validità di una tesi e comporta la capacità cognitiva di selezionare/giudicare i concetti (gli argomenti) più pertinenti rispetto allo scopo, istituendo relazioni tra tali concetti e accostandoli gli uni agli altri per similarità o per contrasti» (LAVINIO 2000:127).

[6] Quando si realizza, spesso l’incontro assume, anche per mancanza di pratica, la fattura dello scontro: ne è spia la lingua, che a partire da latino extra ‘al di fuori’ forma la triade di corradicali strano, estraneo o straniero.

[7] «Se la gente tende a esporsi soprattutto alle comunicazioni di massa secondo i propri atteggiamenti e i propri interessi e a evitare altri contenuti, e se per di più tende a dimenticare questi altri contenuti appena se li trova davanti agli occhi e se, infine, tende a travisarli anche quando li ricorda, allora è chiaro che la comunicazione di massa molto probabilmente non cambierà il punto di vista. È di gran lunga molto probabile anzi che essa rafforzerà le opinioni preesistenti» KLAPPER 1963 citato in QUATTROCIOCCHI, VICINI 2016:22.

[8] Il termine functional literacy compare per la prima volta vent’anni prima, in The Teaching of Reading and Writing (1956, p. 21), testo prodotto da William S. Gray, sempre per Unesco, as the training of adults to «meet independently the reading and writing demands placed on them». Encyclopedia.com (Concise Oxford Companion to the English Language), alla voce omonima, prosegue mostrando le modificazioni semantiche patite dal termine nel corso degli anni, fin dalla sua comparsa: «Currently, the phrase describes those approaches to LITERACY which stress the acquisition of appropriate verbal, cognitive, and computational skills to accomplish practical ends in culturally specific settings. Although also labelled survival literacy and reductionist literacy because of its emphasis on minimal levels of competency and the preparation of workers for jobs, functional literacy is defended by proponents as a way to help people negotiate successfully in their societies. The notion of literacy as a utilitarian tool arose in 1942 when the US Army had to defer 433,000 draftees because they could not understand ‘the kinds of written instruction … needed for carrying out basic military functions or tasks’. In 1947, the US Bureau of the Census began defining literacy quantitatively, describing anyone with less than five years’ schooling as functionally illiterate. With the passing of the Adult Education Act of 1966, 12 years of education became the literacy standard in the US, while in Britain, the right-to-read movements of the 1970s characterized functional literacy as the ability to: (1) read well enough to perform job activities successfully, and (2) understand printed messages. Over the decades, as societies have developed both technical innovations and new language formats and tasks, the definition of functional literacy has been modified to meet the changed demands».

(https://www.encyclopedia.com/humanities/encyclopedias-almanacs-transcripts-and-maps/functional-literacy)

[9] Risalgono al 2013 i «Primi risultati dello studio sulle competenze degli adulti», esito dell’indagine OCSE svolta in 22 stati membri dell’Unione Europea, Italia compresa. Di recente, nel maggio dell’anno in corso, ne è stato fornito un aggiornamento, reperibile con il titolo OECD Skills Outlook 2019. Thriving in a Digital World, in italiano Prospettive dell’OCSE sulle competenze, 2019).

[10] Si prenderà in prestito da SPITZER 2013 il costrutto “demenza digitale” per riferirsi complessivamente ai mali procurati all’individuo e alle società dalla diffusione del digitale, sui quali occorrerebbe operare una riflessione non compatibile con i limiti di questo contributo.

[11] Chi scrive ha tentato di affrontare almeno alcuni aspetti di questa questione in un contributo edito nell’ambito di un volume incentrato sulla famiglia del terzo millennio, a cui si rinvia per aggiungere altri elementi a questa riflessione senza ripeterli (DRAGOTTO 2019).

[12] Raccomandazione del consiglio del 22 maggio 2018 relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente (Testo rilevante ai fini del SEE) (2018/C 189/01)

[13] Libro bianco sul futuro dell’Europa (2017)

https://ec.europa.eu/commission/white-paper-future-europe-reflections-and-scenarios-eu27_it.

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