Le parole sessiste sono pietre.

di Francesca Rigotti

In occasione della giornata istituita dall’Onu (25 novembre) contro il dilagante fenomeno, una riflessione sul peso del linguaggio, spesso discriminatorio e al servizio degli stereotipi di genereFrancesca Rigotti

Se le parole sono pietre, è chiaro perché scegliamo di parlare di violenza contro le donne occupandoci di violenza verbale. Lo sanno bene le autrici di Sessismo, Stefania Cavagnoli e Francesca Dragotto, le quali commentano gli insulti sessisti in rete con le parole di una vecchia canzone (1967) di Antoine, Pietre. Una sorta di lapidazione simbolica del dissenziente o di chi comunque abbia un’opinione diversa dall’odiatore di professione. («Se sei bello, ti tirano le pietre. Se sei brutto, ti tirano le pietre etc.»)

Insulti sessisti, comportamenti sessisti, modelli mentali sessisti, sessismo linguistico, semplicemente sessismo. Ma ha ancora senso parlare di sessismo o non è meglio riservare l’attenzione a problemi veri e seri quali il virus serpeggiante, il riscaldamento del pianeta, la crisi dei migranti, le diseguaglianze economiche? E che cos’è il sessismo? Partiamo dalla definizione, per la quale si intende per sessismo una forma di discriminazione fra le persone sulla base del sesso e del genere di appartenenza; sessismo è ogni atto, gesto, rappresentazione visiva, comportamento o pratica basati sull’idea che un gruppo di persone sia inferiore a causa del sesso. Già sento le voci critiche di coloro che affermano, vedi il Vaticano, che le donne non sono inferiori; sono diverse e complementari al’uomo. Magnifico. E quando però la presunta complementarietà ricalca lo stereotipo per cui le donne sarebbero passive, accoglienti, comprensive, deboli, impressionabili e paurose, e gli uomini attivi, razionali, forti, competitivi, creativi, avventurosi etc., a chi farà piacere sentirsi appioppare le qualifiche della prima serie in nome della complementarietà?

In più il maschile – e questa è una caratteristica squisitamente linguistica che le brave e impegnate autrici ci ricordano in più punti del loro saggio – è universale, vale per tutti gli esseri umani, è non marcato, mentre il femminile è marcato dalla sua femminilità e non vale per tutti. Nella lingua italiana come in molte altre lingue il maschile universale ingloba il femminile (se gli fa comodo). Ben consce del fenomeno, Cavagnoli e Dragotto pongono a epigrafe del volume una breve poesia di Muriel Rukeyser, Mito: vi si narra di Edipo che alla domanda della Sfinge, chi sia l’essere con quattro, due e tre gambe, risponde l’uomo. «La risposta è sbagliata perché delle donne non facesti menzione», nota la Sfinge. «Quando si dice l’Uomo», disse Edipo, «si includono anche le donne. Questo, lo sanno tutti». «Questo lo pensi tu» disse la Sfinge. Mostruosa qui non è la Sfinge, mostruoso è l’uomo, per la sua pretesa di includere le donne pur nominandosi al maschile. L’errore di Edipo di non fare menzione della donna viene continuamente ripetuto quando ci si dimentica di sottolineare il genere e non si nominano le donne in tutti i ruoli che esse rappresentano nella società ma si usano gli agentivi al maschile: il ministro Luciana Lamorgese, l’avvocato Giulia Bongiorno, il direttore d’orchestra Beatrice Venezi. Ovvio che anche molte donne lo richiedano, per cercare di essere maggiormente prese sul serio e conquistare, attraverso il prestito del genere grammaticale, un po’ del prestigio del sesso biologico.

Certo, le forme al femminilile all’inizio risulteranno strane perché inconsuete, come è normale che lo sdoppiamento, studenti e studentesse, bambine e bambini, sia avvertito come pesante. Nei Paesi dove lo si applica, per esempio Germania e Svizzera, molti reagiscono in effetti con fastidio. Eppure è un piccolo tributo da pagare per fare cose con le parole, come diceva Austin nel 1949. O come ribadiva Alba Sabatini nella prima grande seminale ricerca sul sessismo della lingua italiana del 1987.

Le cose sono cambiate in meglio da allora? Nel linguaggio forse, nei comportamenti poco, mentre nel marketing sono decisamente peggiorate. Le bambine vengono sempre più abbigliate di rosa come caramelle, hanno romanzetti rosa tutti per loro, biancheria ammiccante e pubblicità in cui, spingendo piccoli elettrodomestici rosa (come la mamma!), guardano ammirate e passive il maschietto in azione. Persino il cioccolatino per l’infanzia rivela, con la foto del maschietto sull’involucro, di essere non marcato, universale, destinato a bambini e bambine. La foto di una bambina ne denuncerebbe subito il carattere marcato e apparirebbe diretto soltanto alle femmine.

Un discorso a sé merita, e infatti le autrici vi insistono, il sessismo ai tempi dei social o lo hate speech sessuale, dove lo slut-shaming, l’offesa con la quale la donna è soggetta al biasimo riservato alla puttana, costituisce una delle forme più violente di discorso d’odio. Ora, le ingiurie e gli insulti non li ha inventati la rete, neanche quelli sessuali; la rete ne consente però la vastissima diffusione e insieme l’anonimato. Non si conoscono, commentano Cavagnoli e Dragotto, casi di slut-shaming indirizzati agli uomini.

Partendo dal presupposto teorico secondo il quale l’enciclopedia mentale si crea nel bambino piccolo quando è ancora infans, se tale enciclopedia è composta da parole, immagini, gesti, espressioni di tipo sessista (le donne esistono in relazione agli uomini e sono loro subordinate) è ovvio che quando diventerà loquens il bambino userà la lingua contenuta in queste cornici cognitive che danno al mondo senso, talvolta perverso.

La soluzione? Usare un linguaggio adeguato che non nasconda le donne (per esempio non puntando il nome proprio delle persone partecipanti a un convegno o a un dibattito per camuffare il numero ridotto o assente di donne); pensare a soluzioni linguistiche che senza appesantire i testi rendano giustizia al femminile e non provochino «scivoloni linguistici» come quelli ricordati da due giornaliste svizzere di lingua italiana in un loro arguto studio di una decina di anni fa (Francesca Mandelli e Bettina Müller, Il direttore in bikini e altri scivoloni linguistici tra femminile e maschile, Bellinzona 2013). Ma soprattutto la soluzione è, come sempre, la consapevolezza del problema, il riconoscerne l’esistenza, l’essere coscienti della presenza del sessismo linguistico che talvolta cattura anche noi che ci crediamo irreprensibili. Perché, scrivono le autrici, la consapevolezza è libertà. È la libertà di poter scegliere in ogni occasione la via democratica e corretta anche attraverso «semplici parole».