Per GeS sarà presente Francesca Dragotto, autrice della prefazione

 

Perché leggere “La ragazza di Tor di Nona”

Prefazione

Una madre rigidamente calata nel ruolo impostole dalla condizione di nascita; una cortigiana lucidamente onesta con se stessa; una sarta letterata, ambiziosa ed esemplare per intraprendenza imprenditoriale, involontaria influencer ante litteram per giovani, donne e uomini, che in lei scopriranno l’incarnazione di modi inattesi di vivere per una donna; una suora che anni prima, trovandosi di fronte allo stesso bivio in cui si è trovata la protagonista, ha preferito i voti al destino preconfezionatole dal pater familias; una governante, infine, depositaria silenziosa di un passato doloroso riscattato e insieme sanato dalla capacità di azione al momento opportuno.

Cinque donne, cinque protagoniste di un universo costellato di figure femminili minori, ma non per questo meno necessarie, la cui vita si lega, mescolandosi per effetto di sorte, ora a quella di uomini dall’anima putrida ben nascosta dall’aura e dalle garanzie conferite a priori dalla nobiltà, ora, inaspettatamente e con minore frequenza, a quella di uomini di nobiltà autentica, quella dell’animo, ispiratori, con la loro esistenza, di possibilità di vita al di fuori della consuetudine.

Cinque donne, ciascuna ben riconoscibile rispetto alle altre e ciascuna necessaria al funzionamento di un ingranaggio perfetto che segna, con il suo avanzare, la quotidianità ricca di colpi di scena di una Roma ruvida, colta negli anni in cui l’ultimo scorcio di Cinquecento lascia posto agli anni carichi di eventi sensazionali per l’epoca, ma anche in assoluto, che hanno reso memorabili i primi decenni del secolo successivo.

Questa la sintesi estrema e insieme la ragione per intraprendere la lettura de La ragazza di Tor di Nona, narrazione policroma e avvincente nella quale trovano spazio tutti i principali modelli del genere femminile e le forme del loro vivere.

Forme sempreverdi in cui si declina la vita di molte donne e che tutt’oggi popolano la cronaca e le cronache di massa; segni evidenti di una impalcatura sociale – consolidata e spesso inamovibile o persino inavvertita da chi ne è protagonista – che la patinatura conferita dalla modernità ispirata alla tecnologia e alla socialità che attraverso di essa comunica se stessa porta, erroneamente o fraudolentemente, a ritenere superate.

Sono infatti la rassegnazione a una vita segnata fin dal suo insorgere dalle convenzioni sociali ispirate al mos maiorum familiare, la speranza di riscatto riposta unicamente nell’assunzione della donna a carico di un uomo abbiente, la rassegnazione all’inevitabile frustrazione di ogni possibilità di amore insorto motu proprio e la determinazione a vivere la propria vita nell’unica prospettiva di assecondarne i ritmi e le curve scavate dagli eventi, che si intrecciano e insieme fanno da contraltare alla vita di Agnese, figlia di un artigiano del legno la narrazione della cui vita accompagna il lettore e la lettrice per i vicoli di una Roma pericolosa e maleodorante, eppure rutilante, della quale l’autrice disvela tradizioni e costumi spesso ignoti persino a chi oggi la abita, lasciandone intuire una conoscenza profonda e stratificata.

Martoriata dalla natura, che le infligge le reiterate punizioni delle esondazioni del Tevere e delle conseguenti carestie, ma, ancor più, dalla mano dell’homo, in questo caso il maschio che si incarna nei papi e negli alti prelati del clero romano, in quegli anni quella Roma segna in modo indelebile chi la percorre (se donna, per lo più di corsa e incappucciata, per fuggire sguardi disdicevoli e imbarazzanti) per effetto di due eventi luttuosi e delittuosi, che infatti si dilatano, in particolare il primo, nello spazio emotivo della protagonista: le esecuzioni di Beatrice Cenci, vittima della subdola violenza psicologica e sessuale del genitore e per questo più tardi parricida con la complicità, oltre che del fratello, di un’altra donna, la seconda moglie del padre, a sua volta destinataria delle di lui violenze, e di Giordano Bruno, che, similmente a quanto accaduto ad Agnese con suor Benedetta, aveva imparato a scrivere da un prete.

La violenza nei confronti delle donne, in particolare di quelle che manifestano inclinazione e capacità di visione autonoma di se stesse, e magari talentuose, ritorna prepotentemente nel testo con la citazione estesa, vista con gli occhi di Agnese che si forza per prendervi parte, del processo per stupro, nel 1612, nei confronti della pittrice Artemisia Gentileschi e non del suo aggressore, Agostino Tassi. Significativo anche perché ritenuto il primo processo per stupro della storia e perché se ne possiedono gli atti, depositati negli archivi vaticani, il testo dell’interrogatorio costituisce una sorta di archetipo senza tempo, che ancora oggi, epoca di processi anche o soprattutto mediatici o mediatizzati, si compone di domande alle quali chi ha subito violenza deve rispondere in maniera dettagliata per non essere tacciata di collusione con il predatore. Domande poste al ritmo della Sibilla, la tortura, spiegata nel corso della narrazione, che, per Artemisia, pittrice in un mondo di pittori, ha previsto lo stritolamento delle dita per mezzo di una corda.

Molto altro si potrebbe dire a mo’ di accompagnamento preliminare a “La ragazza di Tor di Nona”, col rischio, però, di sottrarre, a chi è sul punto di intraprenderla, parte del piacere che il calarsi in medias res tra i vicoli della capitale dello Stato Pontificio e della cristianità e tra le trame delle gesta del riottoso Caravaggio, prepotentemente presente, seppure in trasparenza, sullo sfondo narrativo, potrebbe riservare. Una ragione questa, assai più che bastante, per accomiatarsi da questa prefazione e tuffarsi nella vita pullulante di varia umanità di quella Tor di Nona.

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